Educazione alla povertà
di Don Tonino Bello
Uno scritto di don Tonino di 20 fa ci può aiutare a vivere i nostri giorni, segnati dallo
spread, dalla crisi e da tante analisi, magari difficili da
comprendere, e ci indica una strada, davanti ad alcuni dati che
riguardano il nostro Paese: 8 milioni di poveri, oltre 36% i giovani
senza lavoro.
Tonio Dell'Olio e Renato Sacco
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“Non
è vero che si nasce poveri. Si può nascere poeti, ma non poveri. Poveri
si diventa. Come si diventa avvocati, tecnici, preti. Dopo una trafila
di studi, cioè. Dopo lunghe fatiche ed estenuanti esercizi. Quella
della povertà, insomma, è una carriera. E per giunta tra le più
complesse. Suppone un noviziato severo. Richiede un tirocinio
difficile. (…)
Povertà come annuncio. (…)
Povertà come rinuncia. (…)
Il cristiano rinuncia ai beni per essere libero di servire. Non per essere più libero di sghignazzare, che è la forma più allucinante di potere. Ecco allora che si introduce nel discorso l’importantissima categoria del servizio, che deve essere tenuta presente da chi vuole educarsi alla povertà. Spogliarsi per lavare i piedi, come fece Gesù che, prima di quel sacramentale pediluvio fatto con le sue mani agli apostoli, ‘depose le vesti’. Chi vuol servire deve rinunciare al guardaroba. (…)
Povertà come denuncia.
Di fronte alle ingiustizie del mondo, alla iniqua distribuzione delle ricchezze, alla diabolica intronizzazione del profitto sul gradino più alto della scala dei valori, il cristiano non può più tacere. (…)
Ebbene quale voce di protesta il cristiano può levare per denunciare queste piovre che il Papa, nella ‘Sollecitudo rei socialis’, ha avuto il coraggio di chiamare strutture di peccato?
Quella della povertà! Anzitutto, la povertà intesa come condivisione della propria ricchezza.
È un’educazione che bisogna compiere tornando anche ai paradossi degli antichi padri della Chiesa: “Se hai due tuniche nell’armadio, una appartiene ai poveri”. Non ci si può permettere i paradigmi dell’opulenza, mentre i teleschermi ti rovinano la digestione, esibendoti sotto gli occhi i misteri dolorosi di tanti fratelli crocifissi. E le carte patinate delle riviste, che riproducono le icone viventi delle nuove tragedie del calvario, si rivolgeranno un giorno contro di noi come documenti di accusa, se non avremo spartito con gli altri le nostre ricchezze.
La condivisione dei propri beni assumerà, così, il tono della solidarietà corta. Ma c’è anche una solidarietà lunga che bisogna esprimere.
Ed ecco la povertà intesa come condivisione delle sofferenze altrui: è la vera profezia, che si fa protesta, stimolo, proposta, progetto. Mai strumento per la crescita del proprio prestigio o turpe occasione per scalate rampanti. Povertà che si fa martirio: tanto credibile, quanto più si è disposti a pagare di persona.
Come ha fatto Gesù Cristo, che non ha stipendiato dei salvatori, ma si è fatto lui stesso salvezza e, per farci ricchi, si è fatto povero fino al lastrico dell’annientamento.
L’educazione alla povertà è un mestiere difficile: per chi lo insegna e per chi lo impara. Forse è proprio per questo che il Maestro ha voluto riservare ai poveri, ai veri poveri, la prima beatitudine”.
Povertà come annuncio. (…)
Povertà come rinuncia. (…)
Il cristiano rinuncia ai beni per essere libero di servire. Non per essere più libero di sghignazzare, che è la forma più allucinante di potere. Ecco allora che si introduce nel discorso l’importantissima categoria del servizio, che deve essere tenuta presente da chi vuole educarsi alla povertà. Spogliarsi per lavare i piedi, come fece Gesù che, prima di quel sacramentale pediluvio fatto con le sue mani agli apostoli, ‘depose le vesti’. Chi vuol servire deve rinunciare al guardaroba. (…)
Povertà come denuncia.
Di fronte alle ingiustizie del mondo, alla iniqua distribuzione delle ricchezze, alla diabolica intronizzazione del profitto sul gradino più alto della scala dei valori, il cristiano non può più tacere. (…)
Ebbene quale voce di protesta il cristiano può levare per denunciare queste piovre che il Papa, nella ‘Sollecitudo rei socialis’, ha avuto il coraggio di chiamare strutture di peccato?
Quella della povertà! Anzitutto, la povertà intesa come condivisione della propria ricchezza.
È un’educazione che bisogna compiere tornando anche ai paradossi degli antichi padri della Chiesa: “Se hai due tuniche nell’armadio, una appartiene ai poveri”. Non ci si può permettere i paradigmi dell’opulenza, mentre i teleschermi ti rovinano la digestione, esibendoti sotto gli occhi i misteri dolorosi di tanti fratelli crocifissi. E le carte patinate delle riviste, che riproducono le icone viventi delle nuove tragedie del calvario, si rivolgeranno un giorno contro di noi come documenti di accusa, se non avremo spartito con gli altri le nostre ricchezze.
La condivisione dei propri beni assumerà, così, il tono della solidarietà corta. Ma c’è anche una solidarietà lunga che bisogna esprimere.
Ed ecco la povertà intesa come condivisione delle sofferenze altrui: è la vera profezia, che si fa protesta, stimolo, proposta, progetto. Mai strumento per la crescita del proprio prestigio o turpe occasione per scalate rampanti. Povertà che si fa martirio: tanto credibile, quanto più si è disposti a pagare di persona.
Come ha fatto Gesù Cristo, che non ha stipendiato dei salvatori, ma si è fatto lui stesso salvezza e, per farci ricchi, si è fatto povero fino al lastrico dell’annientamento.
L’educazione alla povertà è un mestiere difficile: per chi lo insegna e per chi lo impara. Forse è proprio per questo che il Maestro ha voluto riservare ai poveri, ai veri poveri, la prima beatitudine”.
Don Tonino Bello