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Giuda... il venir meno nella sequela
di Antonio Savone


Meditazione tenuta il 23 gennaio 2012 ai seminaristi nel Seminario di Albenga (SV) 



Introduzione

La figura, il gesto e il dramma di Giuda hanno interessato e interrogato intere generazioni di credenti e non credenti. La sua vicenda resterà sempre un mistero impenetrabile e drammatico nello stesso tempo.

Noi vogliamo accostare questa figura per cercare di rileggere che cosa può far sì che la nostra sequela venga meno.

A ben guardare nel nostro cuore, dobbiamo riconoscere con umiltà, che in ognuno di noi c’è un poco Giuda: c’è il desiderio di Dio e c’è il legame con il mondo, c’è l’anelito alla bellezza e c’è un quotidiano cedimento alla mediocrità che ci infanga, c’è la percezione del profumo dell’amore e c’è l’olezzo dell’egoismo istintivo, c’è l’anelito al bene e c’è l’esperienza insistente del male.

Potremmo sottoscrivere a buon diritto le parole di Paolo ai Romani: “Acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (Rm 7,22-24).

Ma Paolo aggiunge subito: “Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo di Gesù Cristo” (Rm 7,25).

Mai dimenticare questa confessione di fede espressa quasi con un grido! Mai lasciare spazio alla desolazione, alla rassegnazione e tantomeno alla disperazione!

Quando Giuda si accostò al Signore per consegnarlo con un bacio ai suoi nemici, Gesù lo chiamò ancora una volta: Amico (Mt 26,50). E per gli amici Gesù era pronto a dare la propria vita, non solo quella nel tempo, ma la vita eterna (Gv 17,2). L’avrebbe data anche a Giuda se non avesse perso la fiducia in lui.

La Chiesa sente di poter dire se questo o quello è in Paradiso, ma sente con altrettanta sicurezza che non può dire chi sia all’inferno.

Giuda, nella sua sventurata esperienza, può esserci maestro, può insegnarci cosa evitare, su quali rischi vigilare, su quali sentieri rimanere e faticosamente perseverare.

 

Giuda il chiamato

Giuda è citato ben 20 volte nei Vangeli, molto più degli altri apostoli. Resterà un mistero il fatto che Gesù abbia chiamato uno che poi lo avrebbe tradito. La vocazione come tale rimane un mistero. Perché proprio io? Mc non dice: chiamò i migliori e neppure chiamò quelli di cui era sicuro, neanche quelli che secondo la gente erano i più degni. Dice invece: chiamò a sé quelli che egli volle. Nient’altro. Gesù accetta nel proprio gruppo il grano e la zizzania. Non è forse vero che anche nella nostra vita personale c’è una promiscuità di intenti, un intreccio difficile da accettare e da districare?

La scelta di Giuda appare come una metafora forte della condizione umana. Il nostro cuore è un terreno di grande ambiguità. Scopriamo così come l’opera di Dio si compia secondo una logica diversa dalla nostra: la zizzania non va strappata, anche perché potrebbe diventare buon grano fino all’ultimo istante. Il male, è vero, resta male, ma le persone possono cambiare.

Dio aspetta fino alla mietitura perché ha un grande rispetto della libertà dell’uomo.

Durante la sua passione, Gesù ha sperato che Giuda si lasciasse incontrare dal suo amore, un amore a portata di mano che Giuda non ha saputo riconoscere.

 

Aspettative deluse

A rileggere il vangelo emerge piuttosto chiaramente che quello di Giuda non è un gesto improvvisato e tantomeno un errore accidentale. Si tratta di qualcosa che parte da molto lontano. Giuda si allontana da Gesù progressivamente. Il suo cuore si raffredda giorno dopo giorno e la sua mente comincia a congetturare, a vedere anche ciò che è irreale e a rileggere in maniera distorta taluni atteggiamenti di Gesù, fino a quando il distacco diventerà irreversibile nell’atto di uscire dalla porta del cenacolo.

Il guaio di Giuda è il non aver saputo consegnare la propria crisi nelle mani di qualcuno che avrebbe potuto accompagnarlo per renderla feconda. Giuda crederà di essere autosufficiente e di essere capace di risolvere i propri problemi da solo. Una illusione fatale.

Un momento di crisi nella vicenda di Giuda, lo si può individuare nell’episodio della moltiplicazione dei pani. In quella circostanza Gesù aveva detto: “Non ho forse scelto io i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo. Egli parlava di Giuda… questi, infatti, stava per tradirlo” (Gv 6,70).

In seno al popolo andava crescendo sempre di più la convinzione che quel Maestro potesse essere la persona adatta per portare a compimento il riscatto dall’occupazione romana. Tanto è vero che proprio in seguito all’episodio della moltiplicazione dei pani il popolo si reca da Gesù per farlo re. “Gesù sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo” (Gv 6,15).

Sappiamo che nella sinagoga di Cafarnao Gesù spiega il senso di quello che egli aveva appena compiuto. Per Giuda comincia a crollare tutto: non è il re che lo libererà dai romani. Di certo non è quello che chiederà di impugnare la spada. Giuda e Gesù non solo non concordano nel modo di vedere le cose ma soprattutto non si ritrovano circa le azioni da intraprendere. Il Cristo di Giuda è ben diverso da quel povero Cristo che ha davanti ai suoi occhi.

Quali erano e quali sono le mie aspettative nell’andare dietro a Gesù?

Accade anche a noi di non essere sempre sulla stessa lunghezza d’onda. A tratti quasi percepiamo una sorta di fastidio, di disagio nel non riuscire a circoscrivere questo Dio quando sembra mandare all’aria i nostri progetti.

 

Sequela parallela

Giuda ha trascorso del tempo insieme a Gesù e agli altri. Quell’esperienza non gli permette di tornare indietro facilmente. È capitato anche a noi: non è scontato fare come se nulla fosse capitato. Equivarrebbe ad ammettere pubblicamente di aver perso tempo per tanto tempo. E così Giuda sceglie un’altra strada o, meglio, un altro modo di stare su quella medesima strada: una vera e propria sequela parallela. Non cammina più seguendo il Signore ma gli cammina accanto, rimuginando sue congetture mentre il Signore fa altri pensieri. È accanto al Signore fisicamente ma il cuore e la mente sono altrove.

Esteriormente è uno del gruppo, ma dentro di sé sa di non condividere più nulla con gli altri. Dichiara pure di essere del gruppo di Gesù, ma non gli appartiene più.

Ha appreso dal Maestro che vi è più gioia nel dare che nel ricevere (At 20,35), ma si guarda bene dall’alimentare la cassa comune. Preferisce piuttosto prendere.

Se sta accanto a Gesù con i suoi passi, di certo gli danno fastidio i gesti gratuiti e i segni d’amore che il Maestro riceve. Li contesta in nome dei poveri ma questi per lui sono solo un’ideologia dietro la quale nascondere la sua bramosia.

Giuda ci rilegge tutte le volte in cui non abbiamo più il coraggio di guardarci allo specchio e di riconoscere umilmente chi siamo in realtà. È la sfacciataggine di chi si appropria di un nome mentre di quel nome è rimasto solo l’involucro.

Tutto si gioca sul versante del discepolato – gente che sa e impara cose su Gesù – che su quello della sequela – gente che pensa e vive alla maniera di Gesù.

Forse che i nostri ambienti non covano cattiveria, odio, indifferenza? E con quanta disinvoltura e maestria poi continuiamo a celebrare riti.

La nostra storia vocazionale ci attesta che se ci vuole coraggio per seguire Cristo, ce ne vuole almeno altrettanto per prendere le distanze da lui. Per questo, talvolta, è più scontato tenere i piedi in due scarpe.

 

Satana entrò in lui

Dopo quel boccone satana entrò in lui… (Gv 13,27).

Satana è definito come colui che è omicida fin dal principio (cfr. Gv 8,44). Forse non arriveremo a uccidere fisicamente qualcuno ma i modi in cui possiamo mettere a morte qualcuno sono molteplici: si dà la morte ogni volta che non si aiuta a vivere.

Si dà la morte quando non si dà una ragione per vivere a chi l’ha persa.

Si dà la morte quando non si fa nulla per sollevare chi è già schiacciato da fatiche personali.

Si dà la morte quando si impedisce all’altro di esprimersi con liberalità.

Si dà la morte quando l’altro non ha alcun valore per me.

Si dà la morte quando non si riesce a cogliere ciò che passa nel cuore dell’altro.

“Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida” (1Gv 3,14-15).

 

Gesti traditi

Il vangelo insiste più volte sul fatto che Giuda fosse uno dei Dodici. Era uno, cioè, che aveva con il Signore un contatto quotidiano.  Rileggendo i brani che si riferiscono a Giuda ci si accorge di come non ci voglia molto a consumare un tradimento. Ciascuno di noi ha la stoffa necessaria per venir meno nella sequela. Si tratta di passi piccoli, semplici, apparentemente non gravi.

I piccoli passi dell’allontanamento di Giuda si concretizzano anche nel compiere dei gesti di amicizia che, tuttavia, non hanno più il significato dell’amicizia. Emerge abbastanza chiaramente dalla sua vicenda la spudoratezza dell’apparenza. Apparentemente i gesti sono i medesimi degli altri, diverso, però, è il significato che egli vi attribuisce. Gesti di amicizia compiuti fuori dall’amicizia.

Il primo gesto è quello del mangiare insieme. Condividere la mensa è momento per eccellenza di comunione: il pasto ha sempre una valenza religiosa nel senso etimologico del termine, cioè di legare insieme le persone. Non così per Giuda. Intinge il suo boccone nello stesso piatto del Maestro – fisicamente doveva essere molto vicino a lui – ma il suo cuore è distante dal cuore del Signore.

Nel Getsemani compirà ancora un gesto di amicizia: il bacio. Il bacio esprime l’affetto che lega l’uno all’altro, ma in questo caso è il segno dato per tradire.

Quali i nostri gesti di comunione senza comunione, gesti di amore senza amore, gesti di pace ma nella divisione?

Questo anzitutto nei riguardi del Signore: forse coabitiamo con lui ma non con-viviamo con lui. Abitiamo in luoghi che portano i segni della sua presenza ma viviamo una vita che di lui ha pochissime reminiscenze. Non accade forse che riceviamo la comunione eucaristica senza essere in comunione? I nostri pensieri sono i suoi pensieri?

Poi i gesti verso i fratelli. Quanti gesti dovrebbero significare amicizia, gentilezza, premura! Stringiamo la mano con l’altro ma in realtà non vogliamo stringere alcun rapporto con quella persona.

Talvolta doniamo un sorriso ma dietro quell’apertura delle labbra c’è la chiusura più netta del nostro cuore.

Guardiamo negli occhi chi ci parla ma non ascoltiamo nulla di quello che ci sta dicendo.

Prendiamo l’iniziativa di telefonare a qualcuno ma con la lamentela di essere sempre noi a farlo.

Facciamo regali che di per sé esprimono il valore di una persona per noi, ma quel gesto è solo un obbligo da adempiere.

Facciamo un favore solo perché sappiamo di doverne chiedere uno di noi a breve.

Usiamo parole pur non credendo affatto in quello che stiamo dicendo.

Diciamo di apprezzare qualcosa mentre pensiamo che non valga nulla.

Scriviamo “con affetto” su certi nostri messaggi mentre sappiamo di non nutrirne alcuno (almeno verso quella persona).

Alcuni esempi per dire di gesti che rischiano di non esprimere ciò che di per sé indicano: nascondono altro e spesso rendono falsi i nostri rapporti.

Salviamo l’apparenza, ma non l’anima. Kierkegaard definirebbe tutto ciò un giocare al cristianesimo. E così compiamo gesti  senza mettere il cuore e diciamo parole da cui la verità ha preso le distanze.

 

Si tradisce per un nulla

Giuda vende il suo Signore per pochi soldi: il prezzo di uno schiavo. Aveva provato fastidio per quei trecento denari di profumo che la donna aveva versato sui piedi del Maestro, ma poco dopo baratta la vita del suo Signore per molto meno.

Quanto vale il mio Dio? Il Salmo ci fa pregare: la tua grazia vale più della vita. Per cosa lo svendo o lo baratto? Non ci è più facile perdere tanto tempo dietro chiacchiere inutile che fermarci qualche minuto in più a pregare o a meditare su un brano della Parola di Dio?

Non accade talvolta che per avere noi maggior credito finiamo per screditare un altro? Non accade che per salire uno scalino facciamo scendere in basso la nostra coscienza? Non accade di dimenticare in men che si creda promesse di una vita? Non accade che per aver poco diamo via tantissimo?

Ci si abitua a tutto, persino al fatto che il male diventi bene senza riuscire neanche più a distinguere l’uno dall’altro.

 

La responsabilità della comunità

In tutta questa vicenda che ruolo ha giocato la comunità di riferimento di Giuda?

Nessuno di noi è neutro rispetto al peccato altrui. Nessuno è senza colpa di fronte al peccato dei fratelli. Certo, Giuda è responsabile del proprio tradimento, ma com’è che satana è entrato nel suo cuore? Non è che forse una parte di responsabilità sia da attribuire anche agli altri che non sono stati capaci di vicinanza mentre egli cominciava a prendere le distanze dal Maestro?

Non siamo responsabili solo di noi stessi, del nostro star bene o della nostra formazione. Siamo chiamati a farci carico di quanto accade o non accade nella vita degli altri. La nostra fede ci dice che siamo un copro solo e perciò la mano non può dire al piede che non gli importa se sta male. Paolo si spinge ancora più oltre quando afferma che le parti più delicate sono quelle che devono ricevere una cura maggiore da parte delle altre (cfr. 1Cor 12,12ss).

Tanti gesti insensati sono compiuti per una mancanza di amore.

Come è possibile che i Dodici siano stati insieme per tre anni circa senza accorgersi di quanto stava accadendo nel cuore di uno di loro? È possibile che uno cambi atteggiamento, modo di pensare e di parlare senza che qualcuno se ne accorga?

È quello che accade anche a noi allorquando si vive accanto ma con la paura e la vergogna di dirci l’un l’altro. Facciamo pezzi di strada insieme come degli sconosciuti, come se fosse possibile camminare verso una meta comune senza tener conto di chi cammina con noi.

 

Attenti

La vicenda di Giuda richiama il tema dell’attenzione. Ora l’attenzione non la si compra ma la si coltiva: iniziare a far caso alla presenza o all’assenza di qualcuno, notare la faccia non bella che uno può avere oggi, la stanchezza, l’umore; imparare a far attenzione a ciò che può far piacere all’altro, ciò che gli piacerebbe avere, le parole che vorrebbe ascoltare; fare attenzione perché io possa essere un orecchio attento perché l’altro possa dire quello che si porta dentro.

È più facile l’indifferenza che l’attenzione, più facile il puntare il dito che il farsi carico. Forse Giuda non ha trovato nessuno con cui parlare, con cui confrontarsi, con cui confidarsi. Resta comunque vero che certe decisioni non vanno prese da soli.

Perché quella sera nel cenacolo, quando Giuda si lasciò la porta dietro, nessuno lo rincorse né con le gambe né col cuore? Nessuno si sentì in dovere di corrergli dietro per sapere che intenzione avesse. I compagni non si mossero: preferirono fare delle congetture (qualcuno pensò che il Maestro gli avesse affidato qualche commissione da fare).

Forse certi gesti si compiono soltanto perché si è soli, unicamente perché ci si sente abbandonati.

Probabilmente Giuda, prima di tradire Cristo, era stato tradito dagli amici di Cristo. È un tradito traditore.

Don Mazzolari scriverà: “qualcheduno però deve aver aiutato Giuda a diventare il traditore”.

Se ci facciamo caso è strano ciò che accade. Gli apostoli aveva appena celebrato la prima eucaristia, ma nessuno si muove. Ricevono il corpo di Cristo ma questo non li interpella circa la responsabilità verso i membri di quello stesso corpo.

Non accade anche a noi di concludere: affari suoi, questo non mi riguarda, non spetta a me…?

Ci costa l’iniziativa di un affetto. Ma la storia di Giuda è lì a ricordare che i nostri peccati di omissione possono permettere ad alcuni di intraprendere strade senza ritorno.

 

La solitudine di Giuda

Rileggendo il dramma di Giuda si scopre che se, è vero che gli apostoli nulla hanno fatto per guadagnarlo a sé nuovamente, è altrettanto vero che qualcuno disposto ad accettare il suo piano e a pagare per la sua concretizzazione lo ha trovato nei sommi sacerdoti e negli anziani. Si tratta di persone che addirittura si rallegrarono per quanto avesse concepito (cfr. Mc 14,11).

Tuttavia, la storia cambia all’improvviso una volta consumato il tradimento. Nessuno più si rallegra e Giuda è l’uomo più solo al mondo. Abbandonato persino da chi aveva gioito del suo intento. Quando vorrebbe pentirsi, infatti, non esitano a dirgli: Che ci riguarda? Veditela tu! (Mt 27,4). Unica compagna gli resta la morte che non tarda a sposare. Ma lo sposalizio non avrà alcun testimone se non la solitudine.

Accade anche a noi, talvolta, di non distogliere qualcuno dal male ma addirittura di appoggiarlo, pronti poi a lasciarlo da solo a gestire qualcosa di troppo più grande di lui.

Conosciamo tutti quel sottile modo di fare che non ci fa sporcare le mani più di tanto, ma le fa sporcare ad altri. È l’atteggiamento di chi stuzzica qualcuno a fare o dire qualcosa che poi rimpiangerà di aver fatto o detto. Talvolta basta una battuta, un’allusione apparentemente innocua, il far riemergere con aria innocente episodi di vita passata: quanto basta perché la molla sia innescata e il meccanismo parta.

Se è vero che basta poco per lanciare qualcuno nella mischia, bisogna riconoscere che basta molto meno per lasciarlo fare da solo.

 

Se noi manchiamo di fede egli rimane fedele

Giuda non ha saputo o non ha voluto fare l’esperienza della misericordia del Signore. Più volte Gesù aveva ripetuto di non essere venuto a chiamare i giusti ma i peccatori (cfr. 9,12-13). Eppure questo non è bastato a Giuda.

Se solo, come Pietro, avesse avuto il coraggio di incrociare lo sguardo di Gesù, avrebbe capito che il Signore non tradisce neanche quando è tradito, non abbandona neanche quando è abbandonato. Il peccato può offuscare il nostro amore per il Signore ma non intacca mai l’amore di Dio per noi.

Non poche volte il peso del peccato, la vergogna per le nostre infedeltà finiscono per far decadere in secondo piano ciò che è più importante: la misericordia del Signore.

Fino alla fine Gesù ha nutrito la speranza di un ripensamento da parte di Giuda:

- durante la lavanda dei piedi aveva detto che non tutti erano mondi nonostante la chiamata e nonostante la presenza del Signore nella loro vita. Avrebbe voluto far capire a giuda che sapeva cosa stava maturando nel suo cuore e invitarlo a tornare sui suoi passi;

- aveva detto, inoltre, che uno di loro lo avrebbe tradito, colui che avrebbe intinto il boccone nel piatto: un ennesimo tendere la mano a Giuda;

- aveva detto pure che era un guaio per quell’uomo che avrebbe messo a morte il Figlio dell’uomo, tanto che sarebbe stato meglio non essere nato;

- ancora quando nessuno capisce, Gesù risponde affermativamente alla domanda di Giuda: tu l’hai detto;

anche quando aveva affermato: quello che devi fare fallo presto;

- lo stesso nel Getsemani.

Gesù aveva creduto fino alla fine che Giuda potesse ravvedersi e cambiare idea.

Finché siamo in vita tutti hanno la possibilità di cambiare. Quando non si fa più credito a una persona, la si condanna a ripetere il passato. È vero che finché c’è vita c’è speranza, ma è altresì vero il contrario: finché c’è speranza c’è vita.

A Giuda è venuta meno la forza di andare dietro al Signore Gesù fino in fondo. Il suo terreno non è stato sufficientemente preparato ad accogliere il seme della parola del Maestro.

Giuda resta un monito per ogni chiamato: in ciascuno, infatti, può venir meno il coraggio della sequela e annidarsi la possibilità di prendere le distanze da Gesù anche se fisicamente continuiamo a fare le cose di sempre.

Seguire Cristo è sì entusiasmante ma non è facile. La scelta va fatta con lucidità chiedendo sempre la grazia di rimanere fedeli.

Forse non abbiamo i numeri per i grandi tradimenti, ma per quelli quotidiani sappiamo di essere tagliati: passano quasi inosservati se non giustificati.

È facile tradire l’amicizia, la parola data, il compito ricevuto, gli impegni assunti, la fiducia offerta.

 

Non permettere, Signore,

che il nostro e l’altrui peccato

ci facciano sprofondare

nello scoraggiamento e nella disperazione.

La tua misericordia

ci raccolga sempre,

anche e soprattutto

quando possiamo contare

solo su di te.

Te lo chiediamo

con umiltà sincera

e fiducia grande.

Amen.


Antonio Savone




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