Il Concilio dei poveri
La Chiesa dei poveri: il Concilio Vaticano II e l’attenzione agli ultimi della storia.
di Luigi Bettazzi
*Vescovo emerito di Ivrea e presidente del Centro Studi Economico-Sociali per la Pace********
Uno
degli argomenti che venivano sollecitati da tutti i vescovi
partecipanti al Concilio Vaticano II (i “Padri conciliari”) era quello
de “la Chiesa dei poveri”. Non era un tema proposto ufficialmente,
anche se papa Giovani XXIII aveva in antecedenza puntualizzato che “il
mistero di Cristo nella Chiesa è sempre, ma soprattutto oggi, il
mistero del Cristo nei poveri, poiché la Chiesa è sì Chiesa di tutti,
ma soprattutto Chiesa dei poveri”.
È vero che, nella storia, la Chiesa è sempre stata “per i poveri”,
quasi che i poveri fossero i beneficiari esterni di una Chiesa che non
è loro. E, invece, si indicava ora che i poveri devono sentirsi non
“oggetto” della carità della Chiesa, ma “soggetto” della Chiesa stessa,
parte attiva nella costituzione della mentalità e dell’operatività. E
questo anche sul piano ecclesiale, dato che l’organizzazione della
Chiesa universale, sia sul piano dell’elaborazione delle dottrine come
sul piano delle strutture operative, appariva tutta in mano all’Europa,
con l’annessione del Nord America, riducendo gli altri territori – il
cosiddetto Terzo Mondo – a beneficiari della Chiesa del Primo Mondo.
V’erano in realtà forti sollecitazioni a far emergere questo tema, sia
in vescovi – come il brasiliano Helder Camara – che si facevano
portavoce delle situazioni e delle attese dei Paesi della povertà
(prima chiamati “sottosviluppati”, ora “in via di sviluppo”) di fronte
a una Chiesa interpretata dai popoli più benestanti, sia in persone –
ed emergeva il francese Paul Gauthier, che aveva fondato a Nazareth il
gruppo dei “Compagnons de Jesus”, falegnami come Lui – che ne
rilevavano invece un’esigenza di conformazione all’insegnamento del
Vangelo e all’esempio di Gesù.
Tali aspirazioni avevano trovato ospitalità al Collegio belga di Roma,
per l’interessamento del card. Suenens, arcivescovo di
Malines-Brussels, e soprattutto di mons. Himmer, vescovo di Tornai.
Questo movimento aveva cercato di coinvolgere anche il card. Lercaro,
arcivescovo di Bologna, di cui si sapeva che teneva in casa giovani
poveri come la sua famiglia, ed era molto impegnato per la liturgia,
verso la quale aveva sempre sentito attrazione sul piano della cultura
come su quello pastorale, sino a chiamare a Roma don Giuseppe Dossetti
perché seguisse questo cammino. Dalla loro collaborazione – card.
Lercaro e don Dossetti – era nato, il 6 dicembre 1962, all’antivigilia
della chiusura della prima sessione, un intervento che rimase punto di
riferimento per lo sviluppo del tema. Il cardinale, infatti, nel
presentare in maniera completa i motivi teologici della Chiesa dei
poveri, metteva in luce anche la particolare attualità, in un tempo in
cui i poveri sembrano essere meno evangelizzati (e perciò cercano
altrove motivi di speranza), mentre i poveri – singoli e popoli –
prendono coscienza per la prima volta dei loro diritti, “in un’epoca –
precisava il card. Lercaro – in cui la povertà dei più (due terzi del
genere umano) è oltraggiata dalle immense ricchezze di una minoranza;
tempo in cui la povertà ispira alle masse un orrore ogni giorno più
grande e in cui l’uomo carnale conosce la sete delle ricchezze”.
Membri privilegiati
Il cardinale non chiedeva che l’evangelizzazione dei poveri fosse
aggiunta come un ulteriore tema del Concilio, bensì che illuminasse la
trattazione dei vari argomenti che il Concilio stesso avrebbe trattato;
chiedeva che si sottolineasse l’eminente dignità dei poveri in quanto
membri privilegiati della Chiesa; che si mettesse in luce la
connessione ontologica tra la presenza del Cristo nei poveri e le altre
due più profonde realtà del mistero del Cristo nella Chiesa (cioè la
presenza del Cristo nell’azione eucaristica e nella sacra gerarchia);
richiedeva, infine, che anche sull’elaborazione degli schemi sulla
riforma delle istituzioni ecclesiastiche e dei metodi di
evangelizzazione trovasse posto e fosse messa in luce la connessione
storica tra il riconoscimento leale e attivo dell’eminente dignità dei
poveri nel regno di Dio e nella Chiesa e la nostra capacità di
discernere gli ostacoli, le possibilità e i metodi di adeguamento delle
istituzioni ecclesiastiche.
Il cardinale portava anche qualche esempio concreto di questi
orientamenti (limitazione nell’uso dei beni materiali, nuovo stile di
vita nella gerarchia, un nuovo comportamento in campo economico…),
ripresi e sviluppati da altri Padri conciliari, come ad es. dal vescovo
ausiliare di Lione, mons. Ancel (che aveva fatto il prete e il vescovo
lavoratore) questi ribadiva i “segni dei tempi” (diffidenza reciproca
tra individui e popoli poveri e la Chiesa) e indicava linee di sviluppo
(dall’animo di povero all’azione istituzionale, dal momento –
commentava amaramente – che “il mondo d’oggi è una macchina per
fabbricare i poveri”); suggeriva anche consegne per l’evangelizzazione
dei poveri (presenza, speranza, universalismo nell’amore), per
l’evangelizzazione dei ricchi (amore, spogliamento, azione con l’anima
di povero), per lo stile della Chiesa (rinuncia ai trionfalismi,
indipendenza da ogni potere politico o sociale, impegno a farsi
immagine vera di Cristo).
Nei documenti
Non si arrivò a un documento specifico sulla Chiesa dei poveri: non va
dimenticato che i vescovi più impegnati nel rinnovamento conciliare sul
piano dottrinale erano i vescovi dell’Europa centrale (tedeschi,
francesi, belgi, olandesi), quindi dei Paesi più sviluppati, non sempre
coinvolti nelle culture e nelle situazioni sociali degli altri Paesi
(non a caso la “scelta preferenziale dei poveri fu proposta nel 1968 in
Colombia a Medellin, dai vescovi dell’America Latina, il Continente più
cattolico ma anche più provato da ingiustizie e povertà). Furono però
inserite frasi significative nei vari documenti, a cominciare dalla
Costituzione dogmatica sulla Chiesa, in cui (Lumen Gentium, 8) si
sottolinea che “come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la
povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la
stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù
Cristo “sussistendo nella natura di Dio… spogliò se stesso, prendendo
la natura di servo” (Fil2,6-7) e per noi “da ricco che era si fece
povero” (2Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la
sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare
gloria sulla terra, bensì per diffondere, soprattutto col suo esempio,
l’umiltà e l’abnegazione…come Cristo… così pure la Chiesa circonda
d’affettuosa cura quanti sono afflitti dall’umana debolezza, anzi
riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo Fondatore,
povero e sofferente, si premura di sollevarne l’indigenza, e in loro
intende servire a Cristo”.
Questa strada della povertà e dell’attenzione ai poveri, ribadita nel
capitolo sull’universale vocazione alla santità nella Chiesa (LG 41f),
viene richiamata nell’attività ecumenica (UR, 12) e in quella
missionaria (AG, 5), viene proposta ai sacerdoti (PO, 6c), ai religiosi
(PC, 13a), ai laici (AA,8c), come motivo di identificazione a Cristo e
come motivo di solidarietà e di giustizia.
Scelta di povertà
Tra i vescovi iniziò a diffondersi la convinzione che avrebbero dovuto
essi stessi dare l’esempio e assumersi l’impegno per uno stile di
maggiore povertà nella Chiesa. Il documento che venne elaborato fu
chiamato lo “schema 14”, dato che 13 erano i documenti fino ad allora
in discussione. Poiché il 16 novembre 1965 venne celebrata nella
Basilica di Domitilla, sopra le Catacombe omonime, una S. Messa
presieduta dal belga mons. Himmer e da 40 vescovi, è stato conosciuto
come il “Patto delle Catacombe”, che fu poi sottoscritto da oltre 500
vescovi (altri forse l’avrebbero firmato se l’avessero conosciuto) e
fatto giungere al Papa.
In tredici capoversi c’è l’impegno a una vita più semplice, senza
realtà e apparenza di ricchezza, con rinuncia a privilegi e a vanità,
affidando la gestione finanziaria a laici competenti e coscienti della
responsabilità apostolica. Poi l’impegno “al servizio apostolico e
pastorale delle persone e dei gruppi dei lavoratori, degli
economicamente deboli e dei sottosviluppati”, sostenendo i “laici, i
religiosi, i diaconi, i sacerdoti che il Signore chiama a evangelizzare
i poveri e gli operai partecipando alla vita operaia e al lavoro”,
cercando di “trasformare le opere di beneficenza in opere sociali
fondate sulla carità e la giustizia”, facendo di tutto perché i
responsabili dei governi e dei pubblici servizi “decidano e mettano in
attuazione le leggi, le strutture e le istituzioni sociali necessarie
alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo organizzato e totale di
ogni uomo e perciò stesso alla realizzazione di un ordine sociale
nuovo”, concludendo con impegni di solidarietà, sia sul piano
internazionale come all’interno delle proprie nazioni e delle proprie
diocesi.
Questi fermenti e questi impegni non hanno in real-tà avuto tutta la vitalità e i frutti attesi.
Confidiamo che il cinquantesimo dell’inizio del Concilio sia
un’occasione di riflessione e di rilancio, anche perché la “nuova
evangelizzazione”, che sta tanto a cuore al Papa e alla Chiesa
italiana, non richiede tante nuove formule o nuovi programmi, quanto un
amore e un’attuazione più convinta e più estesa verso la semplicità e
la povertà, a tutti i livelli. Paolo VI ammoniva che il mondo d’oggi,
più che i maestri, cerca dei testimoni!