Il cristiano difronte alla crisi
di
don Primo Mazzolari
Don Primo Mazzolari, parlando alle maestre cattoliche, spiega come affrontarla dal punto di vista religioso: oltre gli spiritualismi disincarnati di chi idealizza la miseria, ma pure traendone profitto. Una lezione ancora attuale
“ Come ritenere estraneo alla religione un fatto come la crisi, che interessa tutti, sconcerta tutti e fa soffrire tutti?
Lo studieremo considerandolo sotto tre aspetti: i nostri torti come maestri cristiani di fronte alla crisi; gli effetti materiali della crisi e i nostri doveri come maestri cristiani di fronte alla crisi.
1. I nostri torti difronte alla crisi
Il primo torto è di occuparci della crisi soltanto personalmente.
Quando siamo colpiti, mettiamo per esempio da una diminuzione di stipendio, allora, sì, esiste la crisi. Ma se non siamo colpiti personalmente, noi passiamo avanti a tutte le conseguenze della crisi. Con quella spaventosa indifferenza che l’egoismo sa trovare.
Il secondo torto è di non occuparci della crisi religiosamente, ossia di non sentire le influenze disastrose che la crisi porta nel mondo religioso. È l’incapacità di vedere tutto in una visuale cristiana. Si è tentati i chiedere: «Ma la crisi non fa bene religiosamente? Se i cristiani parlano sempre di sofferenza, se la considerano come la strada regia per arrivare al cielo, questa crisi tremenda avvicinerà ancor di più a Dio». Disgraziata opinione di molti cristiani, i quali credono che il soffrire chiami di più la Provvidenza. Ma datemi la vostra esperienza.
Quando la nostra gente stava bene, stava più lontano dalla Chiesa? La gente non ama di più la Provvidenza nelle sofferenze: in queste, al contrario, si chiude di più il senso della Provvidenza. Infatti mai come ora si sono sentite tante bestemmie contro di essa. Occuparsi religiosamente della crisi vuol dire saper occuparsi e valutare tutte le influenze che nella pratica della religione può avere un disagio materiale.
Terzo torto il non occuparci della crisi socialmente.
Si parla tanto di senso sociale. C’è anche la parola di cattolicosociale. Che necessità c’è di aggiungere a «cattolico», «sociale»? Non si può vivere la vita cattolica intera se non in funzione sociale. Se non posso vivere neppure interiormente se non in funzione degli altri, anche il mio sforzo intimo ha una rispondenza nella società. E poiché la strada del Paradiso passa per le anime degli altri, dobbiamo occuparcene come maestre nella scuola dove siamo dinnanzi alle vittime più innocenti della crisi che in essi si manifesta negli aspetti più dolorosi.
Altro torto avere giudizi semplicisti sulla crisi.
Non vorrei arrivaste alla conclusione: «Il Signore ci ha messo al mondo per soffrire». È un’affermazione cristiana? No. Ci ha messo al mondo per godere e Gesù inizia il Discorso della Montagna con la parola: Beati. Dio ci ha messo nel cuore il bisogno insopprimibile di star bene, di felicità. S’intende solo il bisogno insopprimibile di star bene spirituale? No, anche il bisogno insopprimibile di star bene corporale e l’amore di Dio, concretizzato in tutti i suoi doni materiali, non è che un aiuto e un apporto al nostro benessere. La fecondità della terra, le forze mirabili della Natura, le meraviglie del mondo sono un aiuto dell’amore di Dio al nostro bene materiale. Ma il fattore del nostro benessere materiale non è proprio contrario al fattore del nostro benessere spirituale? Quando siete malati avete la stessa facilità di compire il bene di quando siete sani? Quando si è sani, si serve meglio il Signore, onde noi chiediamo anche la salute a Dio. Far soffrire virtuosamente quelli che soffrono è diverso che parlare di soffrire quando si sta bene: parlare disofferenza quando non si soffre è facile. Nella vita il pane ha la sua importanza e dicendo il pane significo la soddisfazione di tutti i bisogni materiali della vita. Valorizzare il pane vuol dire l’importanza del Pater che ci fa invocare il pane e ci fa dovere di domandarlo al Padre per ogni giorno. Dimenticando l’importanza del pane arriviamo a non capire bene, a non trattare bene i fratelli, non ci regoliamo nel giudicarli quando li consideriamo nei bisogni materiali. Noi crediamo che le sofferenze intime siano le più forti e difficili a superarsi, e quasi le desiderabili. Vi sono sì le sofferenze interiori cui ci si inchina, ma vi sono anche delle sofferenze materiali che io metterei al primo posto. Pensate a una mamma che ll’ora dei pasti non ha cibo per i figli, o che ha un bimbo malato e non può curarlo; e presso alla mamma pensate il padre che ha l’incertezza del domani, che è senza lavoro né [ha] pane pei suoi; provate a mettere una creatura in queste realtà materiali e troverete che queste sono sofferenze materiali che precedono le spirituali. Io le metto prima perché i bisogni materiali hanno una voce precedente a quella dello spirito. Provate ad aver fame e poi ditemi se avete voglia di pregare. Abbiamo un senso umano nel giudicare le condizioni attuali altrimenti a forza di aver fame ci dimenticheremo di essere uomini!
Parlando della crisi si parla anche di castigo di Dio. È un torto parlar troppo facilmente di essa come d’un castigo divino.
Il castigo c’è, ma noi cristiani quando parliamo di castigo di Dio negli avvenimenti più importanti, nelle cose più gravi e più difficili a portarsi, dobbiamo andare molto cauti, molto adagio. Individualmente io ho il dovere di riconoscere la mia colpa, ma il ragionamento che faccio per me e che deve nascere dalla mia conoscenza, a chiarimento della mia responsabilità, io non lo devo fare per gli altri.
Sono io l’interprete della volontà di Dio? Delle sue intenzioni? È vero, il Signore per chi ha fede si serve di tutto per richiamarci su strade che abbiamo dimenticate, ma io non devo giudicare gli altri perché creerei quello stato di rivolta che è conseguenza di interpretare religiosamente certi avvenimenti e certi fenomeni. Io non posso giudicare peccatore nessuno fuori che me.
Un altro torto è quello di credere che nella miseria si possa essere anche moralmente più a posto.
La ricchezza è una tentazione ed è cattiva perché è una tentazione, ma la miseria è più d’una tentazione: è tentazione e occasione. Se perde la testa un ricco, non è scusato, ma se la perde un povero, quante scuse ha! La moralità è l’effetto di una condizione normale della vita. L’eroismo, il Signore normalmente non lo chiede, mentre per uno in miseria il minimo sforzo morale è un eroismo. L’uno di bontà di un miserabile è più del cento di bontà d’un benestante. Prima di parlare della cattiveria dei poveri pensiamo che questa cattiveria è superiore e migliore alla nostra bontà perché la nostra poca bontà ci costa così poco.
Ancora: torto è il non aver paura dello sconcerto che la crisi porta ad [impoverire?] l’audacia per poterci rimediare, per impedire di cadere alle impalcature che minacciano rovinare in questo momento.
Uno dei torti più gravi dei cristiani è di mancare di audacia.
Si dimentica che il Signore assiste la sua Chiesa e ciò che alla Chiesa è legato: l’umanità, tesoro della Chiesa. Noi viviamo in un’epoca che non solo nelle parole, ma nei fatti, è rivoluzionaria. Cascano tante cose che noi ieri credevamo indispensabili. C’è della gente che ha lo spavento nel cuore e nella testa. Quello che casca è perché non può stare in piedi, e se casca non deve far spavento anche se rompe le nostre abitudini mentali. Noi dobbiamo fare la volontà di Dio anche in quegli avvenimenti che sconcertano il nostro modo di vedere. Il servizio dei cristiani, in quest’ora, è staccarsi da ciò che credevano e invece non è durevole. Staccarsi anche da quei concetti d’ordine di cui siamo predicatori.
2. Gli effetti materiali della crisi.
Professionalmente:
la mancanza di respiro, di agio. L’agio non è necessario, ma quando si è pressati dal fatto materiale e si va a scuola con mille preoccupazioni, il nostro lavoro ne risente assai, perché respiriamo spiritualmente a fatica. In un libro di Ford è confrontato il rendimento del lavoro di un operaio preoccupato con quello d’uno non preoccupato: questo era maggiore. Le maestre sposate, per esempio, hanno un legame famigliare che non le lascia dare tutte se stesse alla scuola. Né questo deve meravigliare. Mi meraviglierebbe al contrario che una mamma si dimenticasse i suoi figliuoli sia pure per alcune ore: una sospensione del sentimento materno è impossibile. Io vivo pei miei affetti, non per il mio lavoro. Quando c’è l’adattamento al lavoro per necessità, il lavoro diventa inamabile poiché non si può abbracciare con tutto se stesso.
Moralmente:
1) L’abbassamento del livello professionale in conseguenza dello strozzamento dei posti: questi si contendono, onde si denigrano le persone per poter sorpassarle.
2) La facilità della tentazione. A un certo punto del bisogno si ha come uno stordimento: pare che tutto crolli, che non valga più la pena di tenere fermo ciò che va tenuto fermo anche nel nostro campo morale. Quali sono i comandamenti che hanno tenuto duro? Come si può pensare a una coscienza morale nel popolo, a una rinascita spirituale quand’è appunto il senso morale che ha subito un contraccolpo poiché le necessità d’ogni giorno e la lotta per il vivere sono spaventosi? Se è brutta la lotta per il guadagno, ancora più brutta e spaventosa è la lotta per il vivere; ed ora, se è soppressa la lotta di classe, c’è quella per la vita.
La concorrenza e il mangiarsi diventati sistema. È facile dire: bisogna moralizzare la lotta per la vita! C’è della gente che non ha gusto a diventare disonesta, che soffre di diventarlo, e lo deve diventare per le necessità personali più stringenti… Questa responsabilità è legata alla società, non all’individuo, perché non possiamo chiedere all’individuo uno sforzo morale quando la società non fa nulla per aiutarlo. A proposito dei doveri morali dell’altro ricordiamo le parole del Signore: «Voi imponete dei pesi tali sulle spalle altrui, che non sapreste muoverli neppure con un dito». Ossia, pur mantenendo integri i nostri principi morali, dobbiamo tener conto delle situazioni, altrimenti diventeremo capaci di creare la rivolta verso ciò che si deve amare. Oggidì si vede accettare ogni compromesso non solo nel commercio, ma anche nei costumi; ma se si medita su una situazione di miseria, vicina a tutte le tentazioni che la società presenta, vicino a tutto quello che si vede di tanto desiderabile, c’è molto da comprendere e perciò da compatire su certe cadute e certe circostanze. Io non accetto il fatto della caduta, ma devo accettare un’altra maniera di giudicare che è la carità cristiana comprensiva della responsabilità dell’uomo che vede scritto per terra: Non chi è senza peccato, ma chi è senza responsabilità scagli la prima pietra.
3) La difficoltà di credere alla bontà di Dio. Quando ci troviamo dinanzi certi casi disperati, la più bella maniera d’apostolato è tacere. Quando sento certi discorsi o di conforto o di dottrina a chi sta male, mi disgusto. Parole anche buone, ma dette fuori posto, irritano. L’irritazione che danno le prediche, specie di tono disumano, è grande, onde si comprende come, in certi casi, il metter la spada nel fodero è la migliore forma dell’apostolato.
4) Oltre la rivolta verso la religione, che è Provvidenza e non si vede, c’è la rivolta verso i cristiani che stanno bene e danno la tremenda impressione che la religione diventi o stia diventando il rifugio dei benestanti. Oh, i cristiani che stanno bene, onde di loro si dice: «Però lui, però lei…». Si vede che si è religiosi nella speranza che la religione possa servire a mantenere non il cristiano, ma il cristiano benestante; ma cristiano e benestante sono due termini contraddittori. Certe tenerezze per la religione non sono che interesse. Siamo in periodo devozionale e Dio è guardato come un distributore automatico. Spesso si attacca alla religione un grande spirito pagano e il paganesimo non è soltanto dottrinale, ma [è] in efficienza, perché esso vuol dire non fare la volontà di Dio, ma far fare a Dio che vogliamo noi.
3. I nostri doveri difronte alla crisi:
1) Guardare in faccia la crisi.
2) Non chiudere gli occhi alla realtà.
3) Essere generosi di sincerità e d’intelligenza su ciò che ci sta davanti. Il cristiano che non vede, che non capisce il proprio momento, il cuore del fratello, non sarà mai né un cristiano fratello, né un cristiano apostolo.