QUELLI DELLA VIA
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LA STRAGE MARITTIMA DEGLI INNOCENTI

BAMBIN-GESÙ CHE SI CHIAMANO AYLAN
di Giuliana Martirani


Chissà che Aylan annegato sulla spiaggia di Bodrum, o Zeid, preso a calci da una giornalista “folle” o la piccola baby-profuga siriana che, sull'autostrada Istanbul-Edirne, gattona dinnanzi ai militari in tenuta da guerra con scudi antisommossa e che invece invita all’umano e al sorriso anche il soldato; o le centinaia di bambini accolti dalla culla mediterranea in un definitivo atto di misericordia; chissà che questi bambini teneri e dolci, icona delle tanti morti nel Mediterraneo e sui confini europei, non ci facciano ripensare di nuovo al fatto che siamo invecchiati, anzi morti, dentro più ancora che fuori, come persone, popoli, gruppi, comunità. 
E ci facciano riflettere su tutte le nostre innocenze perdute:
• Con noi stessi a causa del nostro orgoglio e di essere chissà chi
• Con il prossimo a causa del complesso di superiorità 
• Con la natura per il complesso di sottomissione 
• Con i popoli del mondo per il nostro complesso di dominio.
E chissà che non ci facciano di nuovo venir la voglia di RINASCERE come persone, e di rinascere anche come città, così ingiuriosamente sommerse non solo dai rifiuti ma anche dai rifiutati: senza fissa dimora, rom, stranieri, clandestini... scarti e rifiutati!
E non solo quelli RIFIUTATI dalle nostre città ma anche quelli rifiutati dalle nazioni, (dimentiche dei loro ‘sfollati’ d’un tempo) i cacciati via dai nostri respingimenti in mezzo al mare o alle frontiere, dinanzi a nuovi muri, come quello di Berlino d’un tempo e quello d’Israele contro la Palestina e degli Usa contro il Messico, e quello dell’Ungheria, della Slovenia, e quelli africani… di ora, e che si fa finta di non vedere e si rimuove, così, ciò che è vergogna per tutti a causa della nostra in-nocenza distrutta di umani, di fratelli, di cristiani.
E chissà che questi bambini teneri e dolci non ci facciano fare un dirottamento totale per vedere Dio: dalla cima del monte, dove abbiamo voluto relegarlo e raggiungerlo, al profondo della grotta, icona del rifugio precario, in cui milioni di individui si riparano e dove Lui sta, sua dimora regale e reale.
La presunzione dell’ascesi dell’uomo verso Dio, il suo infantile salire sui monti per vederlo, il suo tendere la corda al cielo per arrampicarsi verso di Lui, la pretesa superba dell’uomo che suppone di andare lui verso Dio con infinite preghiere ripetute e biascicate, distrattamente e stancamente, oppure con pratiche di perfezione inflitte a se stessi e agli altri, in uno spasimo di superbia e di orgoglio; oppure con atti di bontà indiretta: buoni solo per raggiungere suppostamente Dio e non buoni per amore; tutto ciò crolla totalmente con la realtà di bambini, nascite e grotte, da secoli ribadite liturgicamente e da secoli ripetute esistenzialmente.

Alla grotta bisogna arrivarci: dall’alto dei monti dove noi, come lontane figurine presepiali, siamo infinitamente piccoli che neanche si riesce a vederci, dobbiamo scendere fino alla grotta, fino all’incontro con il dolore e la povertà che c’è nella grotta, dove non ci sono posti distinti dalla folla delle curve né quelli pre-assegnati e numerati come si conviene a delle persone importanti, eppure dove finalmente troviamo la nostra dimensione grande e luminosa di persone e la nostra identità di figli di Dio.
Alla grotta bisogna arrivarci: dall’alto dei monti, dove la nostra identità e statura è infinitamente piccola che neanche si riesce a vederci, appena accennati come esseri, così impegnati come siamo ad esistere e a farci strada, oppure a scalare presuntuosamente la strada verso il cielo. Dobbiamo scendere fino alla grotta, fino all’incontro con il dolore e la povertà che c’è nella grotta, con il bue e la sua orientale laboriosità schiava e paziente, con l’asino e la sua occidentale laboriosità schiava e ostinata. Per imparare, accanto al Dio vero, al Dio bambino, che solo uno è il lavoro non schiavo: quello che riscalda il gelo del bambino, il freddo del povero.
Alla grotta bisogna arrivarci: dall’alto dei monti, dobbiamo scendere fino all’incontro con il dolore e la povertà che c’è nella grotta: due ragazzi che hanno detto sì alla vita senza aver casa, lavoro e senza neanche essere in regola con le tradizioni, gente che crede ancora nei miracoli e nel miracolo della vita, nelle parole dette da Dio e nei sogni che le rivelano. Per imparare, accanto al Dio vero, al Dio bambino che è stato generato dall’in-nocente credulità di una donna (che Dio le ha accreditato come fede) che solo quella è la vera fede: quella che sa dire di sì alla vita, ad ogni sua forma e che continua la creazione perché la vita davvero è cosa buona.
Alla grotta bisogna arrivarci: dall’alto dei monti, dobbiamo scendere fino all’incontro con il dolore e la povertà che c’è nella grotta. E camminando camminando, per giungere fino alle viscere della terra, alle sue grotte, ai suoi anfratti, siamo costretti a vederla la vita di quelli che si arrabattano nei mille mestieri e nelle mille miserie quotidiane: dobbiamo arrivare al bambino attraverso il mercato, le case, le osterie, percorrendo i sentieri normali e quelli tortuosi degli umani e del loro esistere: a Dio attraversando la vita di Maria … attraverso gli uomini e le donne del tempo che si sta vivendo.
Alla grotta bisogna arrivarci: dall’alto dei monti, dobbiamo scendere fino all’incontro con il dolore e la povertà che c’è nella grotta: CON FEDE SPERANZA E CARITA’

Con la fede che solo il progetto di Giustizia e di Pace di Dio funzionerà davvero.
Con la speranza di chi sa essere avvistatore di futuro, esploratore del nuovo, e di chi sa scrutare gli orizzonti appena accennati perché sa accorgersi dei germogli di novità che stanno appena appena spuntando, perché non sta orgogliosamente con il naso all’insù gloriando se stesso nel suo complesso di superiorità.
Con l’amore verso il più piccolo e l’ultimo, dinanzi a cui va a inchinarsi perché “cingendogli il collo possa rialzarsi”.

Chinandosi su Aylan annegato sulla spiaggia di Bodrum.
O su Zeid, per rimetterlo in piedi dopo essere stato preso a calci dalla giornalista “folle”.
O chinandosi sulla piccola baby-profuga siriana che gattona e dopo aver invitato all’umano e al sorriso il soldato, lo vede semmai abbandonare scudo e armi per prenderla in braccio, schioccarle un bacio e portarsela a casa con tutta la sua famiglia, in uno slancio di umanità ritrovata.

 
Giuliana Martirani
Da "Misericordiando. Dall'indifferenza ad un umanesimo misericordioso" 2015





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