Carlo Maria Martini
Pastore sulle strade del mondo
di
mons. Gianfranco Ravasi
Un
giorno, durante un colloquio, il cardinale Carlo Maria Martini mi
confidò l'amarezza di vedere sempre più contratto lo spazio da
riservare alla lettura a causa dei suoi impegni pastorali così vasti e
incombenti. Ricostruì, però, con me in quel momento la lista delle
riviste che cercava di seguire o almeno di sfogliare: alcune erano di
esegesi o teologia, altre di informazione, molte straniere. Ricordo
ancora bene che, in quella lista, oltre a Famiglia Cristiana, c'era
anche Jesus, tant'è vero che mi aveva citato un servizio apparso allora
in uno degli ultimi numeri. Per questo sono lieto di affidare alla
rivista, di cui sono collaboratore fin dalle origini, una memoria di
questa figura ecclesiale così rilevante e avvincente. Come è nello
spirito di Jesus, egli si è sempre preoccupato di insediarsi nei
crocevia della «città dell'uomo » srotolandovi la mappa della «città di
Dio», non per sovrapporla o per proporla come antitetica ma per crearvi
un'interazione feconda, un dialogo serio e pacato. Pur tenendo alta la
fiaccola della trascendenza divina della fede, il cardinale non ha
temuto di farla correre lungo le strade del mondo, nelle lacerazioni,
controversie, sofferenze e attese della storia e della quotidianità.
Egli ha saputo intercettare i vari filamenti culturali, sociali,
spirituali della nostra epoca travagliata e secolarizzata e li ha
ritessuti nel disegno della fede cristiana il cui progetto non è
alternativo e repulsivo rispetto alla vicenda umana, anzi, è destinato
a incarnarsi in essa, sia pure con la sua identità e originalità,
simile a un seme che opera e fruttifica, a un lievito che trasforma e
trasfigura. In occasione della famosa "Cattedra dei non credenti" (dove
il genitivo era soggettivo, per cui i credenti si mettevano in ascolto
anche degli altri) – istituzione sulla quale ritornerò, essendo
idealmente l'antesignana di quel "Cortile dei Gentili" che ho
costituito per il dialogo coi non credenti – Martini dichiarava: «Ho
pensato a coloro che non sono immediatamente presenti nel fanum, nel
tempio, e ho sentito il desiderio di ascoltare altri, quanto più
possibile diversi da noi. Diversi da noi, ma dotati di una tensione
spirituale, carica di forza».
Ebbene, vorrei ora disegnare in maniera molto libera e
"impressionistica" un ritratto "culturale" del cardinale ricorrendo a
una parabola indiana a lui cara, tanto che ebbe occasione di evocarla
più di una volta. Essa è sostanzialmente una metafora della stessa
esistenza umana, scandita in quattro stagioni fondamentali. C'è
innanzitutto il tempo dell'imparare e dell'ascolto, quando si è
discepoli e ci si avvia, guidati per mano, lungo i percorsi del
conoscere, dell'apprendere, dello studiare. Fu questa la tappa primaria
di Martini, quando egli dovette seguire il lungo itinerario della
formazione nella Compagnia di Gesù, un arco cronologico non breve che
si assommava agli studi liceali precedenti e che sfociava
nell'orizzonte della spiritualità ignaziana, per poi inerpicarsi lungo
i sentieri accademici. Essi gli avrebbero offerto tutta l'attrezzatura
scientifica per coltivare quella disciplina che sarebbe stata una
caratteristica tipica della sua personalità, cioè l'esegesi biblica.
È stato proprio da questa tappa che è derivata spontaneamente la
seconda, quella che l'apologo indiano definisce come il tempo
dell'insegnamento, del comunicare ad altri ciò che si è acquisito,
rielaborandolo, approfondendolo e rendendolo più personale e originale.
Martini, come è noto, fu a lungo docente a Roma di Critica testuale
biblica. Di questa materia divenne uno dei maggiori esperti a livello
internazionale tanto da essere cooptato in un ristretto grembo di
studiosi di altre nazionalità e anche di diverse confessioni cristiane
per approntare il Greek New Testament, una rigorosa edizione critica
del testo greco neotestamentario, recensendo e selezionando l'immenso
patrimonio di papiri, codici e testi vari che ci hanno trasmesso le
Sacre Scritture cristiane. Fu proprio esercitando questa disciplina che
fiorì in lui non solo l'amore per la Parola divina ma per le parole
umane concrete in cui essa si esprime, termini da vagliare
filologicamente ma anche da riscoprire nella loro ricca potenzialità
semantica.
Da questa stagione, della quale anche chi scrive fu testimone come
alunno, nacque quasi all'improvviso un'ulteriore attuazione della sua
funzione di maestro. Dalla fine di dicembre 1979 per oltre «tre
settimane di anni», come egli amava dire, fino al 2002, fu infatti
pastore, padre e maestro di una delle Chiese più vaste e importanti del
mondo, quella di Milano. Fu questo il centro della sua esistenza, un
ministero di vescovo che – alla maniera di sant'Ambrogio – si allargava
a tutta la città, alla sua frenetica quotidianità, alla sua vivace
cultura, ma anche ai suoi problemi e drammi, scanditi da anni spesso
tormentati ove, nella caduta delle voci delle altre istituzioni e
agenzie pubbliche, si levava alta ma pacata, severa ma serena, forte ma
delicata, incisiva ma discreta la voce di questo vero maestro e guida.
Una voce che risuonava anche oltre i confini della diocesi, in tante
nazioni ove la sua presenza era attesa e apprezzata.
Di questa fase, la più nota e studiata, rimangono mille testimonianze:
emblematico è, ad esempio, il "Meridiano" che Mondadori dedicò lo
scorso anno agli scritti del cardinale ove, pur nella selezione
testuale, si apriva una vera e propria mappa dell'azione pastorale,
magisteriale e culturale di Martini. Ma soprattutto rimangono le
molteplici iniziative attuate, a partire da quella "Cattedra dei non
credenti" che creò un modello di confronto con il mondo "laico".
Credenti e non credenti, pur piantati su territori differenti, erano
invitati a non rinserrarsi in un isolazionismo sacrale o secolare,
ignorandosi o peggio adottando l'attitudine del rigetto
fondamentalistico reciproco. Sbocciava, così, a Milano, il fiore del
dialogo attorno a temi capitali dell'essere e dell'esistere nei quali
tutti sono coinvolti e talora persino travolti.
Basterebbe scorrere i titoli di quelle "Cattedre" per scoprire un
arcobaleno di iridescenze tematiche che ancora oggi costituiscono il
programma sul quale si deve confrontare sia la Chiesa sia la società.
Ma ormai era alle porte la terza stagione: allo scadere dei 75 anni il
cardinal Martini decise che per lui – come per quel testo sapienziale
indiano – iniziava una nuova esperienza, quella suggestivamente detta
del «bosco», cioè il ritiro nel silenzio. Un silenzio non «nero », pura
e semplice cancellazione di parole e di atti, ma «bianco», in cui le
esperienze vissute ricevevano una nuova luce, alimentata dalla
riflessione, dalla contemplazione, dalla preghiera. Fu, questo, il
breve ma intenso periodo di soggiorno nella terza città amata, dopo
Roma e Milano, cioè Gerusalemme. Là Martini ritrovava le radici stesse
della fede limpida e profonda; là sentiva ancora echeggiare le voci dei
profeti, ma soprattutto condivideva il pulsare della presenza di
Cristo. Nella fascia trasversale del suo stemma episcopale sono
incastonati tre cuori: potremmo idealmente immaginare che essi siano i
simboli delle tre città che, nel desiderio del cardinale, avrebbero
suggellato l'arco intero della sua esistenza fino a quella tomba sulle
pendici del monte degli Ulivi, davanti alla valle di Giosafat, ove egli
avrebbe voluto attendere la parousía, la venuta piena e definitiva del
Cristo a concludere la storia.
Invece lo attendeva la quarta stagione di quella parabola, ossia il
tempo «del mendicante», segnato idealmente dalle parole che Gesù
rivolge a Pietro, il primo degli apostoli: «Quando eri giovane ti
vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio, tenderai
le tue mani e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi»
(Giovanni 21,18). Sono stati gli ultimi anni in cui la malattia lo
aveva reso «mendicante», cioè bisognoso degli altri, soprattutto di
coloro che erano stati l'ideale grembo delle sue origini, cioè i
gesuiti. È così che scelse come spazio estremo di attesa del momento
dell'incontro pieno e diretto con Dio, «faccia a faccia», come scriveva
l'apostolo Paolo, la comunità religiosa di Gallarate. Il suo non fu un
crepuscolo appannato e inerte; la sua voce, ormai flebile, risuonava
ancora, la sua parola continuava a essere per molti, cristiani e non,
un punto di riferimento, le sue parole scritte attraverso i tasti lievi
di un computer o attraverso le mani di chi gli era accanto continuavano
a consolare ma anche a provocare, a dare fiducia ma anche a inquietare
le coscienze torpide. Egli rimaneva ancora una presenza insostituibile,
il cui vuoto sarà avvertito a lungo.
C'era un testo della tradizione ebraica particolarmente caro al
cardinal Martini, al punto di averne fatto il titolo di una delle
"Cattedre dei non credenti". È un passo del libro biblico dell'Esodo
che suona così: «Chi è come te fra gli Dei?» (15,11). Si tratta di una
solenne, potente professione di fede nell'Onnipotente Salvatore.
Ebbene, curiosamente il midrash, cioè la resa esplicativa della
tradizione giudaica, offre una sorprendente e fin sconcertante
variante. Mi kamoka ba-'elim, «chi è come te fra gli Dei?», si
trasforma in un mi kamoka ba-'illemim, «chi è come te fra i muti?». Dio
conosce anche i silenzi abissali, e Giobbe ne è un testimone attonito e
urlante. Martini ha saputo presentare sia il Dio glorioso del Sinai e
della Pasqua, ma anche, soprattutto con la sua vicenda finale, anche il
Dio muto del Calvario che non risponde neppure al Figlio. Ha indicato a
uomini e donne di buona volontà il Dio della parola luminosa, e il Dio
silenzioso che molti credono sia assente o inesistente, mentre è solo
un mistero altissimo da scoprire.