Carlo Maria Martini
Profeta nella città dell'uomo
di
Franco Monaco
Come
risulta dai ritratti più informati e fedeli del cardinal Martini che
sono stati proposti nelle settimane scorse da chi lo ha conosciuto per
davvero, e dunque non dalle caricature abbozzate da osservatori
improvvisati e superficiali, egli fu prima di tutto ed essenzialmente
un uomo di Dio. Un religioso nel senso alto e pregnante della parola.
Un uomo di Chiesa nel quale il carisma – cioè la sensibilità al primato
dello Spirito che, nella sua sovrana libertà e nella sua sorprendente
creatività, soffia dove vuole un po' ovunque – fa premio
sull'istituzione ecclesiastica che pure ha servito con fedeltà e con
amore. Una Chiesa semmai che, proprio in quanto docile allo Spirito del
suo Signore, fosse libera, povera, sciolta (aggettivo a lui caro e
piuttosto inusuale nel qualificare la Chiesa), tutta protesa alla
testimonianza e all'annuncio della Parola. In coerenza con quel suo
ingresso a Milano, quando attraversò a piedi la città con il Vangelo
tra le mani. Come gli raccomandava Giuseppe Dossetti: portare agli
uomini il Vangelo e solo il Vangelo. Lì c'è tutto, dunque non un
programma fondamentalista ma proprio il suo contrario, il massimo
dell'apertura a tutta la pienezza dell'umano.
Su queste basi, si spiega perché Martini, religioso e profondamente
gesuita (anche se da buon pastore, custode e garante dei più diversi
carismi che arricchiscono la Chiesa, con discrezione, non marcava tale
sua peculiare spiritualità ignaziana che pure lo informava
nell'intimo), non mostrasse particolare passione per la politica.
Sbagliano perciò clamorosamente quanti gli hanno affibbiato etichette
politiche: uomo di sinistra, progressista, antiproibizionista,
cattolico democratico. Persino la definizione di pacifista non gli si
confà, piuttosto quella di uomo di pace.
Altre erano le cose (e le connesse iniziative da lui poste in atto) che
lo facevano vibrare: lo studio e la diffusione dell'accostamento
popolare alla Parola di Dio, il dialogo ecumenico e interreligioso, il
fraterno confronto con agnostici e non credenti, le situazioni umane e
sociali segnate da fragilità, il discernimento cristiano verso il
portato della scienza e della cultura moderna. Intendiamoci: a Martini
non sfuggiva affatto il valore e la nobiltà della politica. In cento e
una occasione mise a tema il suo nesso con la virtù cristiana per
eccellenza, cioè la carità. A valle della riflessione che propose alla
diocesi sul «farsi prossimo» varò le scuole di formazione politica che
poi assursero a modello e ispirarono centinaia di esperienze analoghe
nelle Chiese d'Italia nella seconda metà degli anni Ottanta, quando già
si presagiva il collasso del sistema politico del primo tempo della
Repubblica e segnatamente della Democrazia cristiana.
Martini fu sempre fermo e rigoroso nella cura per le distinzioni tra
valori ultimi e valori penultimi, tra religione e politica, tra Chiesa
e partiti. Dissentiva dalla confusione dei piani largamente praticata
soprattutto in Italia. La giudicava nociva, anacronistica, provinciale.
Egli era già oltre, quando ancora la Chiesa italiana si attardava sullo
schema dell'unità politico-partitica dei cattolici di cui pure
manifestamente si erano esaurite le ragioni storiche. Neppure si
riconobbe nell'improvviso rovesciamento dell'approccio: un attivismo e
una interlocuzione diretta delle gerarchie con il potere politico a
scavalco delle tradizionali e autonome mediazioni di partito.
All'opposto la sua sensibilità per la distinzione di campi e
responsabilità lo conduceva – in coerenza con un Concilio che aveva
riservato al laicato una dignità e un protagonismo senza precedenti
nella secolare storia della Chiesa, chiamandolo addirittura
vocazionalmente all'impegno secolare-civico-politico in senso lato – a
stimolare, valorizzare e in concreto scommettere sull'autonoma
responsabilità dei laici cristiani politicamente impegnati. Senza
interferenze o surroghe. In questa luce additava ai fedeli figure
esemplari quali Giuseppe Lazzati, Giorgio La Pira, Aldo Moro.
Sono testimone di infinite circostanze nelle quali egli non solo
apprezzò ma anzi incoraggiò il laicato, compreso quello statutariamente
più organico al vescovo, a spingersi avanti, a prendersi le sue
responsabilità, persino a esplorare vie nuove. Riservandosi poi il
ruolo di pastore, solo se e quando fosse strettamente necessario, per
intervenire e magari correggere, dunque impegnando il meno possibile
l'autorità della Chiesa e propiziando invece il libero dispiegamento di
una vera opinione pubblica dentro la comunità cristiana su terreni ove
per definizione la congetturalità e il pluralismo rappresentano la
regola. Con l'effetto di far crescere la maturità all'interno e di
accreditare all'esterno l'immagine, più appropriata, di una Chiesa come
comunità viva e pensante, la cui parola pubblica non fosse affidata
sempre e solo al Papa e ai vescovi.
Dunque, non si impicciava di politica, nel senso che istituiva una
"zona di rispetto" tra la Chiesa e le parti politiche, ma, attenzione,
era invece sensibile e sommamente interessato a questioni specifiche di
natura civico-politica, quelle circa le quali avvertiva un nesso più
esplicito con la parola e la logica evangelica di una speciale
considerazione per i soggetti e le condizioni di fragilità. Penso ai
detenuti a lui così cari, ai malati, agli immigrati. In questi casi, la
sua sollecitudine non fu solo pratica, ma anche, diciamo così, tesa
allo scavo teorico. Penso alle sue riflessioni sulla giustizia e sul
senso della pena, sulla concreta organizzazione sanitaria, sulle vie
per l'integrazione e la integrabilità, compresi i profili della
interculturalità, di cui non gli sfuggiva la complessità. Si pensi alla
sua apertura critica al dialogo con l'islam (vi dedicò un discorso
durante la festa di Sant'Ambrogio) con un anticipo di circa dieci anni
rispetto all'esplosione del problema. Il registro dei suoi interventi
riguardo alla politica fu essenzialmente profetico, cioè contrassegnato
da radicalità evangelica e massima libertà di giudizio. Un registro per
definizione scomodo rispetto a chi detiene il potere, chiunque esso
sia. Dunque affrancato da ogni calcolo di convenienza. Compresa la cura
ossessiva di non essere bollato come uomo di parte. Mi spiego: in un
discorso alla città di sant'Ambrogio egli distingue tra neutralità,
imparzialità, equidistanza della Chiesa. La cui parola trascende le
logiche di parte, è parola altra e diversa dalle parole della politica.
Ma in concreto non di necessità e sempre ha da essere equidistante.
Cioè tutta compresa dal calcolo troppo umano del bilancino. Che finisce
per farla insipida, pavida, incline alla «cultura dell'ovvio», alla
mera retorica, grigio doroteismo. L'opposto della sovrana libertà e
della cristallina chiarezza del linguaggio evangelico, con i suoi sì
sì, no no.
La trasparenza e la nettezza, proprie del registro profetico, non
indulgono alla semplificazione ma, all'opposto, rinviano alla
consapevolezza della complessità dei problemi e delle soluzioni tipiche
della politica. Provo a esemplificare. Primo: l'ancoraggio a valori
quali la vita, la libertà, la giustizia, la solidarietà, la pace si
associa a un pensoso realismo cristiano, alla lucida consapevolezza che
quei beni-valori ci saranno compiutamente accessibili solo oltre il
tempo; che il male e il peccato, il conflitto e il dolore incombono
sulla vita e sulla storia. In Martini si rinviene una spietata onestà
intellettuale nella lettura della realtà e delle sue contraddizioni.
Non c'è traccia di ingenuo irenismo e di facile ottimismo. La speranza
cristiana fondata sulla Risurrezione è cosa affatto diversa, che
confida sulla salvezza come destino ultimo affidato però allo "scatto"
della Grazia, non a noi.
Secondo esempio: l'enfasi sui principi non negoziabili non esonera
dalla creatività e dalla fatica della mediazione politica per
insediarli nella città dell'uomo. Specie dentro società abitate dal
pluralismo delle concezioni etiche e rette da ordinamenti democratici,
ove, piaccia o non piaccia, si delibera sulla base della regola della
maggioranza. C'è un testo di Martini, al tempo in cui si avviava in
Parlamento la discussione sulla fecondazione assistita, nel quale egli
distingue tre livelli: quello dei principi etici, quello dei principi
costituzionali e quello della mediazione legislativa. Un'articolazione
di livelli – tra loro connessi, ma anche distinti – con i quali deve
misurarsi anche il legislatore cristiano. A dire la complessità di un
compito che meriterebbe più comprensione e sostegno, più
accompagnamento nell'ardua ricerca e meno richiami disciplinari.
Terzo esempio: in un'altra circostanza – pur senza fare nomi di parti
politiche tuttavia facilmente riconoscibili per la loro ostentata
compiacenza verso le gerarchie – Martini sostenne la tesi che, dal
punto di vista cristiano, il fondamento e il metodo dell'azione
politica contano più dei contenuti. Traduzione: la rassicurazione circa
specifiche istanze di valore pur care alla coscienza cristiana con le
quali si immagina di accaparrarsi il consenso cattolico non sono ciò
che conta di più. È decisamente più importante una complessiva visione
della politica come attività contrassegnata da una sua immanente e
organica valenza etica. Sia nel fine, il bene comune e non la cura di
interessi particolari e persino confessionali; sia nei mezzi che non
sono machiavellicamente indifferenti sotto il profilo morale; sia nei
comportamenti soggettivi dei politici che devono corrispondere alla
dignità e all'onore di chi riveste ruoli di pubblica rappresentanza
della comunità. Un rilievo, questo, che fece arricciare il naso a chi,
dentro la Chiesa, dava facile e frettoloso credito alle lusinghe di
formazioni politiche la cui visione complessiva della persona e della
società non era esattamente conforme a una ispirazione cristiana.
Quarto e ultimo esempio: una idea mite del diritto. Martini aveva il
culto della libertà, egli era agli antipodi dello Stato etico. Non
ignorava una valenza pedagogica della legge, ma non vi faceva soverchio
affidamento. Pensava che, al fine di assicurare la qualità etica della
convivenza, sono piuttosto decisive la coscienza morale personale e
collettiva, l'ethos di una comunità. Di riflesso e conseguentemente,
egli era convinto che i cristiani dovessero soprattutto testimoniare e
praticare l'esigente etica delle Beatitudini e che semmai dal crogiuolo
ardente di coscienze e comunità informate a quello spirito sortisse poi
– è lecito sperarlo, ma nessuno può esserne sicuro – un consenso
etico-sociale che, a sua volta, a valle e attraverso le mediazioni
politiche e le procedure democratiche appropriate, potesse elevare il
tenore etico della società. Diffidava cioè dell'impazienza con la quale
i cattolici talvolta si illudono di fare buoni o addirittura cristiani
gli uomini e le comunità facendo ricorso agli strumenti del potere e
della legge, esercitando pressioni dall'esterno su partiti, parlamenti
e governi.
Sono solo esempi che tuttavia ci conducono a tre conclusioni: Martini
era alieno dalla politica come competizione tra schieramenti, ma non
dalla politica come attività volta alla edificazione della polis, cui
sapeva assegnare il giusto posto, misurando il suo valore e, insieme,
il suo limite; era consapevole di quanto essa fosse opera impegnativa e
complessa e dunque era immune da toni sentenziosi e pretese indebite
verso chi vi si dedicava, ma piuttosto si disponeva a illuminarne,
correggerne e sostenerne l'azione; riservava a sé e alla Chiesa la sola
ma decisiva parola di cui essa è depositaria e competente: la parola
profetica del Vangelo e delle esigenze etiche a essa strettamente
connesse. Né una parola di più, né una di meno.