Quei cristiani dietro le sbarre
di
don Virgilio Balducchi*
Da
sempre, la società civile s’interroga sulla questione criminale e su
quale sia la risposta giusta alla violazione delle leggi penali
compiuta dai suoi membri. Nel pensiero cristiano e nella cultura
teologica, nel corso della storia, si sono determinati complessi
rapporti tra asserzioni teologiche e giustificazioni delle modalità
punitive statuali, specie con riferimento all’idea di pena come “retribuzione” della colpa.
Credo che la modalità ordinaria di concepire il rapporto colpa/pena,
cioè la modalità retributiva, sia radicalmente agli antipodi del
messaggio cristiano, perché l’idea che possa nascere un bene ritorcendo
il male mi pare esattamente il contrario del concetto di giustizia che
emerge dalla Bibbia nel suo insieme.
Amare, non punire
Pensiamo al racconto drammatico di Abele e Caino: entrambi fanno
l’esperienza del male e, a prescindere da qualsiasi pena, sperimentano
che il male non costruisce. Spesso si veicola il messaggio che il male
non si deve fare perché c’è Dio che punisce o perché un giudice ti
mette in galera, ma in realtà il male non si deve fare perché di per sé
non ti realizza come uomo.
Che cosa fa Dio di fronte all’omicidio, a quest’uomo che si è posto in
una condizione d’estraniazione da se stesso? Lo va a cercare, fa il
primo passo verso di lui, gli fa prendere coscienza del male commesso,
ma poi difende l’omicida dalla vendetta degli uomini. Per i credenti
diventa giusto e produce giustizia chi, come Dio, ripete questo passo
gratuito.
Qui cogliamo l’aspetto più profondo del cristianesimo, quello che
leggiamo sulla croce, nell’abisso del male: fare fino in fondo la
volontà del Padre, cioè amare anche il proprio persecutore. Questo è
fonte di giustizia e di salvezza: Dio libera dal male con il bene,
amando non punendo.
Ebbene, se il cuore del cristianesimo sta proprio in questo “sappi che
è blasfemo pensare di produrre il bene con il male, sappi che l’unica
fecondità sta nel bene”, allora, quando pensiamo alle forme giuridiche
per intervenire sul male commesso, noi cristiani dobbiamo per primi
chiederci non quale sia la pena che ritorce adeguatamente il male, ma
quale sia la strada per trovare, di fronte al grave problema della
criminalità, strumenti non vendicativi.
Non possiamo rinunciare a domandarci come siano proponibili, anche alla
cultura giuridica, le esigenze evangeliche dell’amore e del perdono.
Sicuramente in questo senso vanno le proposte definite di mediazione
penale riconosciute per legge e già operative nel campo minorile ma
pochissimo nel campo del penale degli adulti in Italia.
Due parole dal Vangelo
Per il credente in Cristo ci sono due indicazioni fondamentali
suggerite da Gesù: l’una come segno della vicinanza di Dio, anzi, della
presenza del regno di Dio su questa terra: proclamare la libertà ai
prigionieri; l’altra è l’identificazione della continuazione della
presenza di Gesù nei suoi piccoli fratelli tra cui i carcerati:
visitare i carcerati (cosa che, se ci pensiamo bene, è normalmente
vietata). Nel pianeta carcere troviamo persone detenute innocenti e
colpevoli, vittime e aggressori, gente che cerca il cambiamento e gente
che non ha ancora deciso di sganciarsi dai propri comportamenti. Uomini
e donne, italiani e stranieri, chiusi tra le mura e le sbarre,
quotidianamente posti in stato di deresponzabilizzazione. Molti
tossicodipendenti e immigrati senza documenti, gente persa dietro a
miraggi di paradisi artificiali o in cerca di fortune economiche
facili. Uomini e donne che cercano, in modi sbagliati, ciò che tutti
cerchiamo, la felicità; o che estremizzano comportamenti che molti
fuori delle mura rincorrono: soldi facili o sostanze per sentirsi più
forti.
In fondo, i prigionieri non sono nient’altro che l’espressione del
volto disumano che ci piace nascondere per non prendere sul serio la
presenza del male con cui dobbiamo combattere tutti. Avere qualcuno
codificato come “maligno” ci fa sentire difesi e dalla parte del giusto.
Spesso ci dimentichiamo che noi cristiani preghiamo un condannato a
morte, uno sospeso tra cielo e terra perché non degno né del cielo né
della terra. Quel Condannato è venuto a liberarci dalle prigioni del
nostro peccato e a riportarci l’abbraccio del Padre.
La domanda che dobbiamo porci è: chi è detenuto, è degno del nostro
amore? A parole penso di sì: il nostro Fondatore chiede di farlo, ma è
amabile chi ci entra in casa per derubare, chi ci fa paura perché
diverso, chi violenta un bambino, chi sfrutta una prostituta? Liberare
i prigionieri è un po’ meno simpatico e non immaginato come
realizzazione del regno di Dio, quando diventa una persona con cui non
vorremmo mai vivere o avere contatti.
Queste affermazioni possono apparire estreme e hanno bisogno di
strumenti concreti per essere reali, ma se già le pensiamo totalmente
irrealizzabili non diventeranno mai segni della presenza del Regno di
Dio su questa terra. Sono convinto che non potremo abolire totalmente
le carceri, ma ridurle di molto sì. Si tratta di scegliere la strada
della riconciliazione per fare giustizia.
Tessitori di giustizia
Mi piace molto la definizione di giustizia data dal card. Carlo Maria
Martini nel suo libro “Sulla Giustizia”: “Giustizia è la virtù che si
esprime nell’impegno di rispettare il diritto di ognuno dandogli ciò
che gli spetta secondo la ragione e la legge. Per questo (…) è vasta
come il mondo: tocca tutti i rapporti interpersonali e anche tutti i
problemi della vita collettiva e delle relazioni internazionali”.
La giustizia che vogliamo costruire non è, pertanto, una questione di
scambio di beni (“tu hai fatto questo e paghi con quest’altro”), ma è
una virtù che cresce nella società se ciascuno accetta la
responsabilità della crescita del bene dell’umanità.
Laddove il diritto non è rispettato (la “certezza della pena” deve
valere anche per chi sta dentro!), le lentezze burocratiche bloccano,
il disinteresse rispetto alla persona più debole predomina, là è il
nostro posto, là va speso il nostro tempo e la nostra intelligenza, le
nostre risorse. La giustizia operante, infatti, può essere la più
aberrante se non si accorge del volto delle persone, delle loro storie,
delle loro fatiche. Chi rappresenta, ad esempio, coloro che non
riescono a esprimersi e coloro che non hanno strumenti per farsi
riconoscere o insistere per farsi ascoltare?
Ecco perché dobbiamo esercitarci nell’annodare i fili strappati,
tessere nuove tele di convivenza, portare la pena a un senso di
reciprocità sociale: questo significa essere tessitori di giustizia.
Siamo convinti inoltre che, assieme ad altri, dobbiamo proporre nuovi
strumenti legislativi, nuove prassi di riparazione sociale che portino
la giustizia a essere più equa, più capace di rafforzare e ricostruire
i legami.
La giustizia del cristiano
Se è vero che la giustizia è prioritaria rispetto alle azioni di
solidarietà e carità, è altrettanto vero che, senza l’amore, diventa
fredda e impersonale, non scalda il cuore e, alla fine, può rischiare
di diventare una mera accozzaglia di trucchi per pareggiare i conti:
“giustizia è fatta” perché formalmente ne usciamo pari.
Di solito il senso d’ingiustizia che si alimenta è di tipo economicista
che non appaga né l’offeso né l’offensore. Gli aspetti più affettivi,
psicologici e anche spirituali, nel senso ampio del termine, sono
lasciati fuori. D’altronde, l’amicizia, la solidarietà vera, l’affetto,
il perdono, la riconciliazione non possono essere trovati attraverso
una legge; possono essere favoriti da leggi che li promuovono o li
facilitano. Possono essere vissuti entrando in una relazione gratuita,
che è il compito specifico del cristiano sull’esempio del proprio
maestro.
Siamo chiamati, quindi, a portare, nell’amministrazione della
giustizia, l’afflato caldo della vicinanza, come elemento basilare per
costruire il rapporto e rimarginare le ferite. In definitiva il
cristiano è costruttore di giustizia, agendo come “uomo di rapporti
solidali e riconciliativi”: questa è la sfida e la “vita buona” in
Cristo che la comunità cristiana nelle carceri, per prima, è chiamata a
vivere e testimoniare dentro e donare come dono alle altre comunità
ecclesiali.
I cristiani, in particolare, sono chiamati ad accettare la sfida
evangelica di prendere su di sé il male e spezzarne le catene per
liberare. Ciò che è vero per ogni credente, lo è in particolare per il
credente in Cristo che avvicina gli uomini che sono definiti dalla
società delinquenti, peccatori pubblici, per usare le categorie del
tempo di Gesù.
Il malfattore codificato richiede anch’esso di essere giustificato nel
senso cristiano di essere salvato. Non molti sono disponibili a dare la
vita per le persone amiche, a noi è chiesto di darla laddove altri non
vogliono. Nessuno è giusto davanti a Dio, lo si diventa anche operando
nel mondo del penale per dare dei segni che la giustizia è vera se
salva l’altro gratuitamente, come Dio fa con noi.
Qui si colloca anche la ricerca e la costruzione della possibilità del
perdono (da non confondere col perdonismo), di cammini di ricerca
impegnativa e responsabilizzante per chi commette reati, per promuovere
una cultura che abbatta i desideri di vendetta e ritorsione e
realizzare percorsi che accolgano le esigenze di giustizia delle
vittime.
Le comunità ecclesiali
La prima indicazione per le comunità ecclesiali è il riconoscere che vi
è una comunità cristiana in carcere. L’impegno pastorale della Chiesa è
volto sia a far vivere la libertà religiosa e l’appartenenza
ecclesiale, l’accesso ai sacramenti, alla catechesi e al sostegno
spirituale per i suoi fedeli sottoposti a provvedimenti penali che
precludono od ostacolano la possibilità di vivere quel diritto nelle
comunità ecclesiali di appartenenza, sia a evitare che simili
provvedimenti rendano non disponibile ai loro destinatari, ove
intendano accoglierla, l’attività di evangelizzazione.
Del medesimo impegno pastorale è in ogni caso componente irrinunciabile
la testimonianza della carità, anche sotto il profilo della risposta a
obiettive esigenze umane o materiali, in favore di tutti i soggetti che
subiscono provvedimenti restrittivi, senza distinzione alcuna circa le
scelte religiose.
La presenza della comunità cristiana nell’ambito penale attesta che
dinnanzi a Dio e in rapporto alla libertà cui Egli chiama non vi è
distinzione fra gli esseri umani fondata su provvedimenti giudiziari.
Nello stesso tempo, essa mira a favorire una matura rielaborazione
della vita passata, che apra al sincero pentimento circa eventuali
responsabilità e, in tal caso, all’impegno per la riparazione e la
riconciliazione.
Ciò significa rendere tangibile che nessuno è escluso dall’azione
salvifica divina e dall’appello alla conversione. Si tratta, dunque, di
testimoniare che, nonostante l’asprezza della condizione di non
libertà, è possibile sperimentare attualmente la vicinanza e la
misericordia di Dio, aprendosi a stili di vita ispirati all’amore
piuttosto che alla prevaricazione.
Anche nell’amministrazione della giustizia le comunità cristiane,
dentro e fuori, sono chiamate a fare opera di discernimento,
valorizzando ciò che promuove il bene di tutti, ma anche denunciando le
scorciatoie che promuovono più vendetta che giustizia.
Per questo in ogni diocesi sarebbe importante che si costruisse un
luogo di riflessione pastorale nel mondo del penale che promuova
l’ascolto e l’accoglienza delle vittime e delle loro famiglie, la
condivisione dei cammini umani ed ecclesiali delle persone sottoposte a
misure penali, la comprensione del lavoro degli operatori della
giustizia e l’approfondimento deontologico del loro operare, l’ascolto,
l’accompagnamento e la valorizzazione per le persone detenute e le loro
famiglie, la promozione del dialogo fra le religioni in contesti di
forte conflittualità, la formazione di un volontariato competente,
delle opere-segno di accoglienza nelle nostre comunità parrocchiali,
dei cammini di riconciliazione, la promozione di comunione tra le
persone e tra le azioni progettuali, delle progettazioni a partire dai
più svantaggiati.
Siamo chiamati altresì a verificare costantemente che in ogni azione si
stia davvero producendo un cambiamento di mentalità, cioè di
conversione, che ci faccia abbandonare qualsiasi desiderio di vendetta.
Nella società la Chiesa, con il contributo dei credenti operatori
nell’amministrazione della giustizia, è chiamata a promuovere leggi che
abbattano la scorciatoia del carcere nell’affrontare il male e
privilegino strumenti conciliativi.