Settimana Santa / 3
La teologia della redenzione
di Carlo Maria Martini
La coscienza oscura di Caifa
Dopo il brano del Libro di Tobia, è interessante vedere un brano del vangelo secondo Giovanni che, di fatto, precede quello dell’entrata di Gesù in Gerusalemme, acclamato dalla folla. La liturgia però lo fa leggere nei giorni successivi alla Domenica delle Palme, perché esprime la forte decisione di uccidere Gesù. «I sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: “Che facciamo? Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione”. Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell’anno, disse loro: “Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera”. Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo. Gesù pertanto non si faceva più vedere in pubblico tra i Giudei; egli si ritirò di là nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Efraim, dove si trattenne con i suoi discepoli» (Giovanni 11, 47-54).
I sommi sacerdoti e i farisei erano molto preoccupati per il fatto che Gesù aveva risuscitato Lazzaro e perciò riuniscono il Sinedrio, la più alta magistratura giudaica, istituita alla fine del II secolo avanti Cristo.
Siamo davanti a un testo teologicamente molto denso, forse uno dei più densi di teologia della storia.
– La reazione dei capi del popolo è allarmante, disorientata: che cosa facciamo? se continua così dove andremo a finire? Prevale quindi l’emotività, la paura; la reazione è priva di analisi oggettiva della situazione. Non c’è nessun ascolto dell’altro, nessun tentativo di rimettere in ordine gli avvenimenti. C’è soltanto l’insorgere di timori che si accavallano, che rimbalzano dall’uno all’altro durante la riunione. Le reazioni emotive si caricano reciprocamente fino a lasciare tutti smarriti: «Verranno i Romani, distruggeranno il nostro, luogo santo e la nostra nazione» (Giovanni lt 48). E il caso tipico dell’impazzimento di un consiglio, di un parlamento, di una sessione pubblica, dove, perso il controllo e il contatto con la situazione reale, le emozioni rimbalzano l’una sull’altra. In tale situazione interviene il suggerimento di Caifa.
– Le parole di Caifa, apparentemente, tendono a chiarire la situazione, a dare la chiave di ciò che sta succedendo: voi non capite nulla, ve lo spiego io! C’è qui una luce, una soluzione semplice che emerge da tutto questo. Il suggerimento di Caifa può essere letto e riletto, perché è gravido di contenuti, alla luce della storia precedente del popolo di Israele. Viene anzitutto in mente il consiglio di Achitofel nella storia di Davide (cfr. II Samuele 17). Achitofel consiglia ad Assalonne, figlio di Davide, qualche cosa di simile: la situazione è tale che uno deve morire per tutti. In realtà, colui che deve morire, secondo il consiglio di Achitofel, è lo stesso padre di Assalonne! C’è già una proiezione messianica: uno dovrebbe morire per tutti affinché il popolo abbia pace. Risalendo più indietro nella storia biblica, possiamo percepire la natura diabolica del consiglio di Caifa, confrontandolo con la suggestione del serpente nel paradiso terrestre. Il serpente parla a Eva partendo da una falsa ipotesi: Dio vi ha comandato di non mangiare di nessun albero. Pone quindi un elemento di emozione, di ripulsa. E ne deriva una falsa tesi: In realtà, se voi mangiaste di questo frutto diventereste come dèi. Analogamente, il ragionamento di Caifa parte da una falsa ipotesi, da un falso dilemma: bisogna sacrificare o uno solo o tutto il popolo. Comprendiamo quanto questo dilemma abbia di vergognoso ricatto, perché pone di fronte a quelle situazioni in cui qualunque cosa si scelga si va a cadere nell’angoscia mortale. Preferisci che muoia uno o tutto il popolo? Come si fa a rispondere a una simile drammatica domanda? La diabolicità del consiglio sta proprio nello spingere in un vicolo cieco, per cui, per uscirne, bisogna alla fine avere l’apparenza di scegliere il minore male. Dal falso dilemma si giunge alla falsa tesi: Se ucciderete quest’uomo, non verranno i Romani! Il suggerimento di Caifa si colora di aperture politiche, di necessità di stato, di necessità di sopravvivenza, e coinvolge passionalmente la gente così legata al proprio popolo, ricattandola in ciò che ha di più vivo. Pur se i rappresentanti non sono forse molto degni, è certo che amano il popolo, la nazione e non vogliono assumersi la responsabilità di andare contro all’avvenire, al futuro della loro gente. Ma sono appunto intrappolati in un diabolico ragionamento: se volete salvare il popolo, sarà necessario sacrificare Gesù. Siamo di fronte alle vie di satana, che ci muove verso vicoli ciechi, ci confonde con emozioni improprie, ci impedisce di prendere contatto con la realtà e di considerarla sobriamente, e alla fine ci pone davanti ad azioni che appaiono sì non buone, ma inevitabili per ragioni più alte.
– Dopo il drammatico consiglio di Caifa, ci stupiamo ancora di più per il commento dell’evangelista.
Giovanni non lo fa in senso morale, come noi ora cerchiamo di fare (è un consiglio malvagio, ricattatorio). Il suo è un salto teologico, dottrinale inatteso e insperato: «non da se stesso… profetizzò». C’è un piano di azione che è quello delle contingenze umane, dove avvengono cose vergognose, innominabili; parallelamente e non prescindendo da esso, corre il piano della provvidenza di Dio. Per questo dicevo che un simile brano è una delle più dense elevazioni di teologia della storia. Lungo il piano delle contingenze umane, anche errate, corre il piano della provvidenza salvifica, del disegno divino. Accanto al consiglio diabolico c’è il consiglio di salvezza. È con un tale legame che addirittura il consiglio umano di Caifa assurge al rango di profezia, pur se il termine ha, in certo senso, un significato ironico, quasi sarcastico, ma reale. «Non da se stesso disse queste cose», bensì in virtù del suo ufficio, della sua capacità di capo del popolo. C’è un grande rispetto per le funzioni gerarchiche, una grande attenzione all’ordine delle situazioni, che la potenza di Dio non rovescia immediatamente e utilizza per il suo fine.
«Profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione, e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Giovanni 11,51-52). Non si potrebbe esprimere con parole più forti il senso dell’agire di Gesù e la teologia della redenzione. «Morire per la nazione» è l’espressione che nel «Credo» è stata trasmessa: «Per noi morì», per la nostra salvezza. E lo fece «per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi».
Dovremmo meditare a lungo su queste parole, partendo dal termine greco: congregare, mettere in unità. Vengono alla mente altre parole di Gesù: «Gerusalemme, quante volte ho voluto radunare i tuoi figli come la gallina raduna i suoi pulcini e non mi avete ascoltato» (Matteo 23,37; Luca 13,34). Oppure la parabola della rete misteriosa gettata nel mare, che raduna tutti i generi di pesci per la pienezza dell’ultimo giorno (Matteo 13,47). O ancora: «Dove sono due o tre radunati nel nome mio, io sono in mezzo a loro» (Matteo 18,20).
Gesù tende a mettere insieme le persone, a radunarle in unità, e questo è il suo disegno, che potremmo chiamare storico, non soltanto teologico o spirituale: radunare tutti i popoli in unità, fare una sola cosa di tutti. Tale disegno ha le sue radici nella visione di unità che parte dall’Antico Testamento, per esempio il cap. 31 di Geremia: «Ecco, io li riconduco dal paese del settentrione, li raduno dall’estremità della terra» (v. 8). Già la versione greca dei LXX aveva aggiunto, di questo brano famoso del profeta: «Li raduno dalle estremità della terra nella festa di pasqua». Nella tradizione greca il radunare i dispersi aveva un legame con la festa di pasqua.
Noi comprendiamo perciò lo sfondo teologico, messianico, salvifico, nel quale vengono pronunziate e raccolte dall’evangelista le parole di Caifa: la Pasqua è prossima e, nel momento in cui si consuma un delitto politico, civile, sociale Dio raduna il suo popolo secondo la promessa, nel suo Figlio, nell’unità della sua vita e della sua morte, in un’unità che sarà come quella del Padre col Figlio. «Così che essi siano una cosa sola, come tu, Padre, in me e io in te» (Giovanni 17, 21).
– Come risposta alla visuale altissima dell’evangelista, c’è una frase drammatica che ci richiama alle parole del prologo: «Venne tra i suoi ma essi non l’hanno accolto» (Giovanni 1,11). Qui si dice: «Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo» (Giovanni 11,53). La luce e le tenebre, la vita e la morte, l’unità e la divisione, la volontà di comunione e l’opposizione totale a questo desiderio di unità.
– La frase con cui termina il brano (Giovanni 11,54) ci insegna che, alla vigilia di eventi drammatici che lo riguardano strettamente, Gesù sente il bisogno, ancora una volta, di ritirarsi in silenzio, per un momento di familiarità con i suoi, così da affrontare con pienezza di coscienza i giorni che lo attendono. Noi pure abbiamo bisogno di silenzio e di raccoglimento per capire se siamo davvero dalla parte di Gesù o dalla parte di coloro che, confusi e smarriti dalle esigenze della fede, non riescono più a riconoscere e a vivere la verità.
Carlo Maria Martini
Tratto da : RITROVARE SE STESSI – “UN PERCORSO QUARESIMALE”