di Antonio Savone
Paolo
è colui che per primo ha provato a dare un assetto alla teologia
cristiana.
Uomo moderno, Paolo, la cui forza risiede proprio nella
capacità di tenere insieme da una parte la sua integrità (uomo integro,
non rigido) dall’altra l’insicurezza della sua posizione.
Uomo
complesso, che ben riflette il nostro tempo.
Molto diverso da Pietro:
segno che il modo di esprimere la fede non è unico ma personale,
proprio di ciascuno di noi.
Un uomo che si può incontrare solo nella
misura in cui ci si apre all’universalità. Egli appartiene a tre mondi
e a tre culture: ebraica, greca e romana. Cresciuto in un ambiente
familiare, intellettuale e religioso in cui si incrociavano il mondo
semitico, quello greco e quello latino, si trovò senz’altro favorito
nell’assumere un atteggiamento di apertura ad altri mondi culturali.
Forse proprio per questa sua molteplice appartenenza Paolo viene
chiamato dal Signore ad essere segno di una salvezza offerta a tutti,
giudei o greci. E per fare questo ha accettato il rischio di porsi su
una barca instabile pur di raggiungere tutti, gettando una rete
nell’oceano abitato da qualunque tipo di pesce, in nome di quell’agàpe
che nessuno esclude.
Un ministero, quello di Paolo, eterogeneo e
accogliente. Fu lui il massimo artefice dell’apertura della prima
comunità cristiana a quelli di fuori. Fu lui a intraprendere un
coraggioso tentativo di dialogo culturale con il mondo greco come
attesta il suo discorso nell’Areopago (At 17,22-31). Senz’altro uomo di
più grandi visioni e dal respiro immenso.
SAULO SI RACCONTA: DA
PERSECUTORE A CONFESSORE
Chi è Saulo? È lui stesso a fornirci qualche
indicazione qua e là nelle sue lettere: “Circonciso l’ottavo giorno…
ebreo figlio di ebrei; riguardo alla legge, fariseo” (Fil 3,5); “Io
sono nato a Tarso in Cilicia, ma allevato in questa città (Gerusalemme)
e istruito ai piedi di Gamaliele per oltre cinque anni nell’esatta
conoscenza della legge dei nostri padri, pieno di zelo per Dio” (At
22,3); “Per zelo, persecutore della Chiesa di Dio, e in quanto alla
giustizia della legge, irreprensibile” (Fil 3,6). Ma tutte queste cose
che per me erano un guadagno, io le ho stimate invece una perdita per
amore di Cristo…” (Fil 3,7-8).
Un forte elemento di rottura fa da
spartiacque nella vicenda di Paolo: l’incontro con Gesù di Nazaret
sulla via di Damasco segna l’abbandono di tutto il suo passato e
l’apertura a nuove prospettive religiose per sé ma anche per gli altri.
La sua esistenza nettamente divisa in due da un incontro che lo ha
trasformato. Non ha conosciuto come accade alla maggior parte di noi un
percorso graduale che è andato perfezionandosi nel tempo. Per lui la
prospettiva è mutata radicalmente e per sempre. O il sistema religioso
che si rifaceva a Mosè e alla legge o Cristo. Prima era legato anima e
corpo al primo campo, dopo Damasco ha sostenuto il secondo contro il
primo.
Cosa accadde a Damasco? E chi era il Paolo in cammino verso
Damasco? Uno che, sulle basi di una forte ortodossia religiosa,
acquisita a Gerusalemme, intravedeva nel movimento che faceva capo a
Gesù di Nazaret un grande rischio per l’identità giudaica. Come era
possibile sostenere che per essere giusti davanti a Dio bisognava
credere in Gesù Messia crocifisso, che si doveva ritenere solo scandalo
e maledizione?
A Damasco accade un riconoscimento: prima ancora che
essere Paolo a riconoscere il Signore è il Signore stesso che riconosce
Paolo. “Saulo, Saulo…”: Paolo si sente riconoscere come persona al di
là di quello che egli stava facendo, che sia stato buono o cattivo. Lì,
in quell’essere chiamato per nome, c’è tutta la fiducia di Dio per lui,
nonostante andasse a perseguitare i cristiani. Resterà cieco per tre
giorni: un’esperienza di buio per ripensare la sua storia. Egli scopre
di non sapere chi è Dio, nonostante gli studi e tutto il suo impegno
nella religione. Altro è Dio. Avrà bisogno di un fratello, Anania, per
farsi aiutare a trovare Dio che lo chiama. Anania è il segno che il
cambiamento non è solo interiore, in termini solo individualistici, ma
all’interno di una comunità dove gli altri non sono accidentali ma
fondamentali per aprirsi al Dio rivelato da Gesù. Forse possiamo
comprendere da qui l’insistenza di Paolo nell’invitare le comunità a
ricercare la comunione fraterna e l’unità.
A Damasco Paolo è chiamato a
dare un nome alle sue ombre, alle sue paure, alle sue insicurezze che
fino a quel momento erano ben coperte e difese attraverso successi,
proiezioni e arroganza.
A Damasco Paolo è rimasto davanti a Dio con
tutto se stesso, sentendosi chiamato non per quello che aveva
realizzato, ma unicamente attraverso la benevolenza di Dio. Questa
percezione della scelta gratuita da parte di Dio non lo abbandonerà mai
più: amato da Cristo mentre ne era avversario.
A Damasco percepisce che
Dio chiama e ama nella debolezza, rendendolo non meno forte di prima,
ma più consapevole, docile, disponibile. La sua personalità non è
annientata ma riletta. La forza di prima gli permetterà di affrontare
pericoli, fatiche, ansie, persecuzioni. Quell’incontro fa di Paolo il
persecutore Paolo il confessore della nuova fede. Verso Damasco
persecutore e perseguitato si ritrovano faccia a faccia l’uno con
l’altro. Cristo affascina proprio colui che più lo combatteva. Per
Paolo resterà chiaro: non è stato lui a convertirsi a Cristo, ma Cristo
lo ha convertito a sé. Quel Gesù che egli rifiutava gli si è mostrato
agli occhi della sua anima vivo, presente, come uno che gli veniva
incontro. Anzi, Gesù si identifica, fa tutt’uno con i credenti in lui:
io sono Gesù che tu perseguiti (At 8,5). E se ciò che più ci ostacola
custodisse anche per noi una particolare rivelazione di Dio?
In quel
momento Paolo comprende tante cose:
• Dio gli ha mostrato Gesù come suo
Figlio, mediatore di una salvezza che non è solo per i giudei ma anche
per i pagani;
• conoscere Lui vale più di ogni altra cosa;
• l’uomo è
giusto (occupa cioè il suo vero posto davanti a Dio) solo per grazia e
per fede, non già in virtù delle opere che la legge mosaica prescriveva
(Fil 3,7-11). Fino a questo momento il Crocifisso rappresentava per lui
solo un povero e miserabile illuso che la sua tragica fine aveva
delegittimato di ogni attendibilità, maledetto da Dio agli occhi di
tutti gli ebrei che sapevano bene ciò afferma la Scrittura: maledetto
chi pende dal legno (Dt 21,26). Lì a Damasco comprende che proprio il
maledetto è motivo di benedizione per tutti i pagani. Messo sulla
bilancia da una parte il suo passato di ebreo privilegiato per nascita
e per scelte e comportamenti di vita e dall’altra Gesù Cristo e la
conoscenza di lui, il piatto pende decisamente verso quest’ultima. La
scelta non è tra il meglio e il buono ma tra guadagno e perdita,
vantaggio e svantaggio.
A Damasco scopre una diversa scala di valori:
ora il segno meno è assegnato alla sua passata posizione di forza e di
gloria. Paolo incarna il contadino di Mt 13,44-46; “avendo trovato un
tesoro nascosto nel campo… pieno di gioia va a vendere tutto quello che
possiede e compra quel campo”. Rinunciando alla giustizia che deriva
dalla legge Paolo si ritrova un rapporto con Dio rettificato. Non è un
l’appartenenza ad popolo che dice l’appartenenza a Dio. E allora Paolo
sceglie di essere posto alla pari di quanti pativano l’handicap nativo
della propria esclusione dall’alleanza.
A Damasco Paolo vive una
esperienza di grazia che gli restituisce la consapevolezza di essere
amato da Gesù Cristo: “questa vita che vivo nella carne, io la vivo
nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per
me” (Gal 2,20).
A Damasco il persecutore Paolo è trasformato in
credente in Cristo e suo apostolo. E non un apostolo qualunque ma
apostolo dei gentili (dei pagani) (Gal 1,15-16). Il Paolo convertito da
Cristo non è un uomo irreligioso. Tutt’altro. Il suo pedigree di ebreo
è invidiabile. Credente nel Dio unico, fedele osservante delle
prescrizioni della legge, persecutore della Chiesa di Dio. I suoi occhi
erano luccicanti di fanatismo. Ebreo con la spada in pugno. Gli sta a
cuore difendere la causa del suo Dio che ha stabilito un’alleanza con
il suo popolo e ha dato una legge da osservare scrupolosamente. Strenuo
difensore dello status quo, non senza aggressività e oppositore
agguerrito nei confronti di ogni novità. Presente, anche se non attivo,
al linciaggio di Stefano (At 7,58; 8,1; 22,20), ad un certo punto
appare non tanto come un persecutore ma la persecuzione fatta persona.
Non risparmia nessuno: prima la comunità di Gerusalemme, poi quella di
Damasco. È addirittura un sanguinario: “io perseguitai a morte questa
nuova dottrina” (At 22,4). Si comprende perciò lo stupore e la lode a
Dio da parte delle prime comunità quando vengono a sapere che “il
nostro persecutore di un tempo ora annuncia quella fede che allora
cercava di sradicare, e glorificavano Dio a mio riguardo”. Così scrive
lo stesso Paolo in Gal 1,22-23.
Quello di Damasco non è un vero e
proprio evento di conversione ma di rivelazione.
E tuttavia il Signore
chiese a Paolo altre conversioni. Dovette imparare a convertirsi ai
progetti di Dio, mettendo da parte i propri: avrebbe voluto cominciare
la sua missione da Damasco dove Gesù gli si era manifestato, ma gli fu
impedito e lo stesso accadrà a Gerusalemme. Nel secondo viaggio
missionario avrebbe voluto fermarsi in Asia Minore, ma lo Spirito
glielo impedì (At 16,6-7) e lo chiamò in Macedonia. Dovette poi
imparare a convertirsi ai tempi di Dio: dovette attendere anni, lui che
con foga voleva buttarsi nella missione. Inoltre dovette imparare a
convertirsi ai modi di Dio: anche il fallimento e la personale
esperienza di fragilità non erano da considerare materiale di scarto ai
fini della realizzazione dell’universale progetto di salvezza.
Damasco
rappresenta il tempo della svolta, una vera e propria esperienza di
crisi: Paolo sembra essere passato da una sorta di perfezionismo, dove
contavano le riuscite, il dovere, l’osservanza dei comandamenti e Dio
era piegato al proprio schema mentale, a un diverso modo di comprendere
le cose. Se prima era Paolo che con la sua stessa volontà, con la sua
irreprensibilità e arroganza gestiva la relazione con Dio, ora egli
impara ad affidarsi a Dio e a lasciargli le redini della sua vita.
PURCHÉ CRISTO SIA ANNUNCIATO
Se c’è una espressione che in qualche modo
racchiude tutto di Paolo questa la si può ravvisare in Fil 1,18: purché
Cristo sia annunciato. Una vicenda piuttosto complessa quella di Paolo
ma con questo unico motivo di fondo: far conoscere Gesù Cristo.
La
strada è il suo luogo abituale di vita e il viaggio la sua condizione.
L’orizzonte è il mondo intero (2Cor 11,23ss).
E allora ecco i viaggi
per terra e per mare, in regioni montuose e deserte, i naufragi, le
persecuzioni, i disagi di ogni tipo. In brevissimo tempo tante le
distanze percorse e le comunità fondate. Sa che il vangelo cammina con
le gambe dei suoi annunciatori. E dove non può arrivare con le sue
gambe affida alle sue lettere non tanto il suo pensiero quanto la sua
sollecitudine e il suo amore per le comunità nate sul suo cammino.
Paolo privilegia i grossi centri, le grandi città, i luoghi di snodo.
Pur muovendosi continuamente, un grande affetto lo legava alle comunità
fondate, come testimoniano le sue lettere. Capace di tenere insieme da
una parte la vastità dell’impegno e la fretta per raggiungere più
luoghi possibili e dall’altra la responsabilità verso le comunità
fondate e perciò l’esigenza di fermarsi o di ritornare. Sebbene spesso
in movimento mai superficiale, uomo universale e al contempo capace di
comunione. Uomo a servizio della comunione tra membro e membro delle
singole comunità, tra gruppo e gruppo e soprattutto tra comunità di
tipo giudaico e comunità di tipo ellenistico. Favorirà una colletta per
i cristiani poveri di Gerusalemme che non è semplicemente un dono ma
uno scambio: i cristiani di Gerusalemme condividono la propria
ricchezza spirituale e le altre comunità provvedono alle loro necessità
materiali. Ognuno dona quello che a sua volta ha ricevuto. Misura del
proprio dono il dono di Dio stesso che da ricco che era si è fatto
povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua
povertà (2Cor 8,9). Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare a ogni
costo qualcuno. Tutto io faccio per il Vangelo (1Cor 9,22-23).
Paolo è
un uomo che ha molto chiara la motivazione su cui gioca la vita (tutto
per il Vangelo).
Questa consapevolezza è ciò che gli fa vivere nella
libertà e con maturità le relazioni interpersonali. Il suo farsi tutto
a tutti non è secondo una logica di superficialità o di svendita della
propria personalità, ma è espressione di un amore non selettivo né
esclusivo né interessato. L’unico intento è quello di portare gli altri
nella relazione con Gesù e dalla relazione con Gesù arrivare agli
altri. Nel rapporto interpersonale ha dovuto fare i conti con la
diffidenza: “venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi con i discepoli,
ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un
discepolo” (At 9,26). Ha poi dovuto imparare a gestire i conflitti: “ma
quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché
evidentemente aveva torto” (Gal 2,11). Ha imparato a stare a contatto
con la propria fragilità: “mi è stata messa una spina nella carne…
perché io non vada in superbia” (2Cor 12,7). Ha conosciuto anche la
tenerezza delle relazioni: “tutti scoppiarono in un gran pianto e
gettandosi al collo di Paolo lo baciavano, addolorati soprattutto
perché aveva detto che non avrebbero più rivisto il suo volto” (At
20,37-38). Ha sperimentato e promosso uno stile del prendersi cura: “ti
prego dunque per il mio figlio, che ho generato in catene, Onesimo… Te
l’ho rimandato, lui, il mio cuore” (Fm 1,10-12).