Un Padre della Chiesa
di Gianfranco Bottoni
«Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino».
Il versetto del Salmo 119 che Carlo Maria Martini ha scelto per la
lapide della sua sepoltura sintetizza il senso profondo della sua
spiritualità e della sua testimonianza.
La sua icona
In quelle parole è come contenuto il suo più intimo segreto. Potremmo
dire che vi si può leggere l'icona della sua esistenza. Egli,
commentando la Bibbia, ricorreva spesso a immagini o intuizioni che
chiamava icone: le usava per indicare in sintesi il messaggio dei testi
che stava illustrando. Ora, al termine della vita terrena, è di sé e
del suo episcopato che, con le parole del Salmo, ci ha regalato la
migliore icona che potesse rappresentarlo. Essa rimane la vera chiave
ermeneutica della sua singolare personalità di uomo di Dio. Per chi
l'ha ascoltato e seguito come pastore non c'è infatti alcun dubbio che
il suo servizio alla chiesa scaturisse dall'amore della parola di Dio
scoperta nelle Scritture. In particolare scaturiva dal suo amore per la
straordinaria umanità della persona di Gesù, la parola di Dio fatta
carne. Lucerna accesa sui suoi passi è stato sempre e soltanto il
messaggio di Gesù letto nel solco della tradizione biblica. Ma anche
riletto nell'ascolto del cuore umano e delle inquietudini del mondo di
oggi.
Egli era cosciente che solo nella parola di Dio si trovava la forza
decisiva per il suo ministero. La custodiva con fedeltà e la coniugava
con la spiritualità ignaziana a cui si è riferita la
formazione religiosa ricevuta nella Compagnia di Gesù. E con acuta
sagacia, da vero maestro, la offriva a tutti per edificare la
chiesa del concilio. Il concilio Vaticano II, soprattutto con
la Dei Verbum e la Lumen Gentium, aveva inteso
mettere le Scritture nelle mani del popolo di Dio, perché se ne
nutrisse per la vita delle comunità ecclesiali. A questo obiettivo ha
subito mirato la sua guida di pastore.
Arcivescovo di Milano
Infatti Martini ha subito condotto la sua chiesa a riscoprire la
dimensione contemplativa della vita, tema cui dedica la prima lettera
pastorale, perché essa si lasciasse generare dalla parola di Dio e
mettesse al suo centro l'eucaristia che la edifica come corpo di
Cristo, per poter vivere in comunione con lui la sua stessa carità di
buon Samaritano che si fa prossimo. Parola, eucaristia, carità: a
questa triade Martini ha ricondotto
carismi e ministeri dell'intera pastorale
della chiesa, di una chiesa conciliare che viva
nello stile del vangelo. Martini vi dedica il primo periodo del suo
episcopato. E su questi tre pilastri si fonderà la stessa architettura
del suo sinodo diocesano. Già il suo ingresso a Milano come
arcivescovo, nel febbraio 1980, preannunciava uno stile nuovo. Aveva
voluto camminare per le vie della città tenendo in mano il Nuovo
Testamento tradotto in lingua corrente. Il segno del camminare con il
libro della Parola tra la gente, in mezzo alle case, come uno tra gli
altri, diceva l'assoluta novità di uno stile evangelico. Allo stile
profetico e itinerante di Gesù e al senso profondo di quel gesto
inaugurale è rimasto fedele nei suoi ventidue anni di servizio alla
chiesa milanese.
Perché il testo della traduzione interconfessionale in lingua corrente?
Lui, studioso a livello mondiale di critica testuale e di filologia
neotestamentaria, con quella scelta preannunciava ciò che avrebbe fatto
con la sua predicazione e con la scuola della Parola: non più il
biblista dell'esegesi scientifica, ma il pastore che, commentando le
Scritture, spezza il pane della Parola perché sia commestibile per
tutti enutra la fede del popolo sulle vie dell'unità. Lo attesta lo
straordinario successo editoriale delle sue pubblicazioni, più numerose
di quelle dei più prolifici e facondi padri della chiesa.
Intelligenza e santità
Ricca e poliedrica, affascinante e complessa è stata la personalità di
Martini. Al punto che, nel momento in cui ci si accinge a scriverne, al
di là dell'icona da lui stesso suggerita, si resta come travolti e
quasi paralizzati da una quantità di suggestioni e di ricordi, di idee
e di interpretazioni della sua figura di uomo di chiesa. Nella
commozione per la sua recente dipartita molte cose sono già state dette
sulla straordinaria luminosità del suo episcopato. Ma persino gli
interventi che meglio colgono nel segno risultano sempre parziali e
riduttivi.
Toccherà alla ricerca storica studiare a lungo e con obiettività nei
prossimi decenni scritti e documenti, fatti e azioni del suo ministero
pastorale, della sua profonda umanità e della sua produzione
scientifica e spirituale. Presumo che gli storici confermeranno una
convinzione che è di molti, non solo mia: con Martini siamo stati posti
di fronte alla gigantesca figura di un padre della chiesa dei nostri
giorni. Un pastore e dottore in cui intelligenza e santità si
sono compenetrate come nei grandi geni cristiani dell'epoca
patristica.
Ora tenere insieme intelligenza e santità non è dono comune né
frequente. Anzi. È invece proprio ciò che, nella fase di inculturazione
della fede e di nascita della religione cristiana, caratterizzò le
figure di coloro che la tradizione cristiana chiama padri della chiesa.
Così è stato anche per Martini. C'è però una differenza rispetto
all'epoca patristica. Allora, l'intelligenza cristiana era chiamata a
essere creativa e propulsiva di un nuovo modo di pensare che fosse
coerente con la fede in Cristo. Oggi, con l'avvento della modernità e
di una cultura secolarizzata, l'intelligenza del credente non risulta
di fatto all'altezza di una missione per i nostri tempi, se non sa
dotarsi di profonda capacità di ascolto del cuore dell'uomo
contemporaneo e di perspicace senso critico nei confronti della stessa
esperienza religiosa.
Essere padre della chiesa oggi non è la stessa cosa che nei primi secoli del cristianesimo.
È carisma che, per le attuali complessità, risulta assai raro e del
tutto prezioso. E, proprio per questo, esposto ai rischi di viscerali
avversioni. Già il suo motto episcopale Pro veritate adversa diligere,
che rimanda alla figura e agli scritti pastorali di Gregorio Magno,
aveva lucidamente preconizzato la testimonianza di un amore
intelligente che, per la ricerca del vero, non si sottrae a difficoltà
e avversità.
Lo straordinario carisma che fa di Carlo Maria Martini un padre
della chiesa è consistito proprio nell'aver saputo
coniugare intelligenza critica e santità biblica. Una acuta e vivace
intelligenza, che si lascia interpellare e mettere in discussione per
poter condividere il cammino di chi pensa e ricerca. Un ascolto
obbediente della parola di Dio, dalla cui luce egli si faceva guidare
nel cammino della vita e della storia.
Cercare insieme: La Cattedra dei non credenti
Con il lume acceso della parola di Dio non temeva di avventurarsi
nell'oscurità di percorsi inesplorati, di inoltrarsi nelle vicende
concrete e drammatiche dell'umanità del nostro tempo. Che cosa vi
cercava? Come Gesú con la samaritana, anch'egli aveva sete di ascoltare
il cuore umano e di scoprirvi la sete di Dio. Una sete spesso
inconscia, ma frutto dell'opera nascosta dello Spirito. Per questo
Martini usciva dai soliti confini a incontrare le persone che si
considerano non credenti o agnostiche, ma pensanti e in ricerca. Gli
interessavano i cammini attraverso percorsi anche molto diversi da
quelli della propria fede. Ne percepiva le
irriducibili differenze, ma sapeva
stupirsi anche di alcune impensate consonanze.
Dello Spirito, che suscita imprevedibili sintonie, poté scrivere:
Lo Spirito c'è, anche oggi, come al tempo di Gesù e degli Apostoli: c'è
e sta operando, arriva prima di noi, lavora più di noi e
meglio di noi; a noi non tocca né seminarlo né svegliarlo, ma anzitutto
riconoscerlo, accoglierlo, assecondarlo, fargli strada, andargli
dietro. C'è e non si è mai perso d'animo rispetto al nostro tempo; al
contrario sorride, danza, penetra, investe, avvolge, arriva anche là
dove mai avremmo immaginato. (Tre racconti dello Spirito, 1997).
La Cattedra dei non credenti è stata certamente
l'intuizione più emblematica e più apprezzata di questo suo
discernimento spirituale. E della conseguente apertura mentale al
dialogo. Ma di un dialogo che doveva innanzitutto essere interiore a
ogni persona: il dialogo tra il credente e il non credente che c'è in
ciascuno di noi. Soltanto affermare che credenti e non credenti non
sono due mondi distinti e contrapposti fa crollare muri di
separazione, al confronto dei quali la caduta del muro di Berlino
appare, se così si può dire, una inezia.
Colpiva il fatto che un vescovo cristiano di fede granitica
riconoscesse il proprio non credere e lo mettesse in cattedra accanto
al proprio credere. E questo doveva valere per ogni suo interlocutore,
per ogni relatore invitato alla cattedra, in qualunque posizione questi
si pensasse rispetto alla fede. Per Martini, questa della cattedra, è
stata un'avventura dello spirito tra le più avvincenti della sua vita.
Lo confidava lui stesso
Comunicare e parlare alla città
Il grande successo della Cattedra dei non credenti e la sua accoglienza
nel mondo laico come l'evento culturalmente più significativo nella
Milano di quegli anni stanno a indicare quanto Martini sapesse parlare
alla città. Già le sue lettere pastorali, veri testi di fede, venivano
lette e gustate anche da chi non era familiare ai temi religiosi.
Scritte in linguaggio curato e a tutti accessibile, prive di moralismi
o di astrazioni dottrinali, non hanno nulla del gergo clericale. In
ogni occasione Martini è stato un comunicatore serio e incisivo, molto
attento ai destinatari del suo messaggio. E non privo di un sottile
senso dell'umorismo. Ha saputo tenere un ottimo rapporto nei confronti
dei mass-media, da cui era ricercato con stima e rispetto. Apprezzava
la professione giornalistica. Vi si è riconosciuto, negli ultimi anni,
per la sua collaborazione con il Corriere della sera, che gli ha
permesso, malgrado la malattia, di dialogare con molta gente attraverso
le sue risposte alle molte lettere che i lettori gli inviavano. Proprio
al comunicare aveva dedicato Effatà, apriti! (1990) e Il lembo del
mantello (1991), due importanti lettere pastorali che seguirono il
ciclo dedicato al tema dell'educare. Ma la sua forza di comunicare e di
porsi come autorità morale per la vita civile, nei difficili anni di
piombo e di tangentopoli, è maggiormente emersa in interviste e nei
suoi famosi discorsi alla città. Quelli delle vigilie di Sant'Ambrogio.
Lì ha saputo parlare ai cittadini e alle istituzioni pubbliche con
coraggio e fermezza, con altissimo senso etico e grande passione
civile, con la chiaroveggenza di vedere in anticipo questioni sociali e
culturali ineludibili.
Interventi che, ad anni di distanza, restano bussole di riferimento. Ne
cito solo alcuni titoli: Educare alla politica (1987); Per una città e
un'Europa accogliente (1989); Noi e l'islam (1990); Alzati, va' a
Ninive, la grande città (1991); Esiste ancora la solidarietà in Europa?
(1992); Alla fine del millennio, lasciateci sognare (1996); Il seme, il
lievito e il piccolo gregge (1998); Terrorismo, ritorsione, legittima
difesa, guerra e pace (2001); Paure e speranze di una città (2002).
* * *
Carlo Maria Martini al termine del suo mandato a Milano, pochi giorni
prima di lasciare l'arcivescovado, mi disse che stava completando la
stesura scritta di una sua mappa settimanale finalizzata alla propria
preghiera di intercessione. Per ogni giorno della settimana e per i
vari tempi di orazione, in quella mappa aveva elencato nominativamente
persone e comunità, categorie e situazioni,problemi e necessità.
Evidentemente lo scopo era di ricordare tutti e di non dimenticare
nessuno di coloro che si era preso a carico dinanzi a Dio. Lasciava
Milano e la diocesi, ma portava con sé volti e problemi della sua
gente. Si sarebbe presto trasferito a Gerusalemme. Vi portava nel suo
spirito la grande chiesa del Signore. La chiesa senza confini che aveva
amato e servito, il popolo che il pensare in grande di Dio estende a
tutta l'umanità. Portava con sé coloro che aveva incontrato. Con le
loro ferite, che aveva curato e che erano ancora da lenire. Con i loro
doni e progetti, che erano sempre da sostenere. Per ciascuna intenzione
di preghiera poteva così assicurare la sua costante invocazione a Dio.
Soprattutto all'intercessione per la pace intendeva dedicarsi in
Gerusalemme. In nessun altro luogo avrebbe potuto farlo con uguale
intensità e pregnanza. Infatti ripeteva spesso che non potrà mai
esserci pace sulla terra, finché non si sarebbero risolti i conflitti
in quella città, la città santa per le tre religioni monoteiste. E la
intercessione non si limita a preghiere innalzate nel rifugio sicuro
della propria stanza. È invece connessa con il rischio di agire.
Intercedere, infatti, significava, per Martini, fare dei passi, entrare
in situazioni complesse. Camminare per andare a porsi in mezzo, tra due
soggetti in conflitto. E saper stare lì stendendo le braccia fino a
tenere le proprie mani sulle spalle di entrambi gli antagonisti. E
l'intercessore deve saper resistere fermo in quella scomoda posizione
finché il conflitto non venga risolto. Resistere anche a costo di
andarci di mezzo, di subire rifiuti e violenze, di fallire l'obiettivo
e di pagare di persona. Questo, per Martini, il senso della
intercessione.
A Gerusalemme, ove le tensioni religiose sono molteplici e il nodo del
conflitto israelo-palestinese appare insolubile, egli andava senza
sapere che cosa lo attendeva. Lo dichiarò lui stesso a Efeso, poche
settimane prima della conclusione del suo episcopato ambrosiano. Vi
sarebbe dunque andato come Paolo: mosso dallo Spirito. Sfidava il
rischio di non essere capito, ma con la fermezza del proposito con cui
Gesù decise di dirigersi alla città dell'offerta. Martini aveva
invitato la sua stessa diocesi, riunita in sinodo dal 1993 al 1995, ad
assumere come icona per il proprio cammino il firmavit faciem suam, di
cui parla Luca 9, 51: la ferma decisione di Gesú di «mettersi in
cammino verso Gerusalemme».
Anche la chiesa, chiamata a volgere sguardo e passi verso Gerusalemme,
ha da essere luogo di intercessione all'interno dell'intera umanità.
Ora, per rendere manifesta l'opera di riconciliazione del Cristo, che
dei due popoli — Israele e le genti — ha fatto una cosa sola, i
cristiani devono rivedere la propria autocoscienza nei confronti del
popolo ebraico. A questo proposito Martini aveva avuto parole
forti e ripeteva la necessità di non limitarsi a condannare
l'antigiudaismo. Diceva che, molto di più, bisogna «essere per il
popolo ebraico, per la sua cultura, per la sua storia, per la sua
straordinaria testimonianza religiosa». Con Rav Giuseppe Laras tenne
nel 1990 il primo incontro pubblico, nella storia di Milano, tra
arcivescovo e rabbino capo. E nel 1993 insieme commentarono lo Shemà
Israel in apertura di uno studio biblico ebraico-cristiano. Si
incontrarono in sinagoga e in più occasioni Laras ha avuto per lui
grande ammirazione e fraterno affetto.
Stare in mezzo alle tensioni ecclesiali
L'intercedere, nel significato pregnante e rischioso inteso da Martini,
come può concretarsi per la chiesa, per il suo camminare in mezzo
all'umanità di oggi e ai suoi problemi? Sono certo che nella
prospettiva spirituale dell'intercessione da lui vissuta rientrava
anche quel mettersi in mezzo rispetto a ciò che oggi risulta più
conflittuale nei cammini di fede e nella vita ecclesiale. C'è spesso
incomprensione tra chi ha il cuore ferito per le prove o le sconfitte
della propria vita e chi le giudica secondo principi cristiani e regole
coerenti, ma rigide. Nascono così tensioni tra attese e risposte. E si
vengono a fronteggiare prospettive contrastanti, con ripercussioni
all'interno della chiesa. Martini ne soffriva. Non fuggiva però questi
problemi e aveva il coraggio di affrontarli. Nell'ottica
dell'intercedere, appunto.
Quando se ne parlava, mi colpiva il suo essere in ascolto attento e
solidale nei confronti di entrambe le parti, malgrado le loro forti
divergenze. Da una parte egli era in piena comunione con la chiesa
istituzionale di cui condivideva i principi dottrinali. Dall'altra era
in fraterna ed evangelica prossimità verso coloro che soffrono di
essere in situazioni difficili o di sentirsi rifiutati dalla religione
della chiesa. Il suo stare nel mezzo non era tenere posizioni mediane
tra quelle contrapposte. Era il tentativo di assumere un atteggiamento
coerente con la sua metafora dell'intercessore. Il tentativo di stare
in mezzo tenendo le mani sulle spalle di entrambe le parti
contrapposte. Farsi carico del sentire delle persone, quando questo
appare conflittuale con il pensiero della chiesa. E restare in sintonia
con il sentire della chiesa che non dimentica il vangelo di Gesú
Cristo. Ecco una inedita forma di intercedere.
A questo proposito ricordo alcune conversazioni successive al suo
rientro in Italia per la malattia. Mi confidava che, prima di chiudere
i suoi giorni sulla terra, sentiva il dovere di parlare, di toccare
pubblicamente alcuni temi scottanti. Sarebbe stato come levare un grido
d'intercessione. Un appello a ridurre le distanze tra chi è in cerca di
misericordia e chi ha il difficile compito di amministrarla. Ma c'era
chi, pur essendogli amico e riconoscendo l'autenticità dei suoi
intenti, temeva che alcune sue osservazioni risultassero critiche. Gli
equilibri ecclesiastici spesso si reggono sui silenzi che evitano le
questioni scomode. E la voce di chi vi fa risuonare una parola in nome
del vangelo risulta destabilizzante.
Martini si sentiva pertanto in dovere di calibrare la portata dei suoi
interventi. Non voleva, infatti, ferire nessuno e tanto meno creare
contrapposizioni. La sua solidarietà con la chiesa istituzionale, di
cui era esponente autorevole, era fuori discussione. Ma era pure
convinto di non dover tacere. Sarebbe stato tradire il vangelo. Doveva
dunque dare voce a chi non può averla e ne patisce le conseguenze. A
volte, sapendo che le strutture ecclesiastiche non erano ancora pronte
a recepire le istanze che egli avrebbe espresso, ricorreva alla
metafora del sogno. Il sogno di una futura chiesa. Il sogno di una
chiesa fatta di comunità alternative rispetto alle logiche del mondo o
della religione del senso comune.
Il sogno di un nuovo concilio per discutere alcune questioni rimaste
escluse dall'agenda del Vaticano II oppure emerse piú recentemente.
Con lo sguardo in avanti
Ma perché parlare, se sapeva che per ora non sarebbe state ascoltato?
Donde scaturiva questa sua esigenza di parresia, anche se temperata da
un alto senso di responsabilità e di carità? La motivazione che lo
muoveva non era ideologica, come qualcuno stoltamente pensa. Egli non
cercava protagonismi, né leadership su posizioni di avanguardia. La sua
esigenza di dire cose scomode nasceva invece da una intuizione per
nulla ovvia e molto acuta. Mosso dal suo eccezionale senso della chiesa
gli interessava soltanto un obiettivo: creare nella tradizione
cristiana un precedente da consegnare al futuro della chiesa. Quale
precedente? Quello di un cardinale, arcivescovo di una grande sede
episcopale, che non ha taciuto temi scomodi, che ha rotto i silenzi
della chiesa del suo tempo, che ha indicato la necessità di affrontare
questioni urgenti.
Ciò che oggi a taluni appare tema prematuro domani sarà inevitabile
argomento di discussione. Ed è davvero di altissimo profilo la
motivazione con cui Martini si determinava a parlare: seminare nella
storia della tradizione cristiana affermazioni e istanze, che avrebbero
potuto essere successivamente riprese come qualificati precedenti per
future e ineludibili decisioni di aggiornamento nel cammino della
chiesa. Vi aggiungeva la sua fiducia nell'opera futura dello Spirito
all'interno della chiesa.
Ora non si tratta né di anestetizzare la portata dei suoi interventi,
né di leggerli come uscite di rottura. La preoccupazione per l'unità
ecclesiale ha sempre prevalso in lui. Per questo ha potuto avere la
forza di dire, anche se non proprio tutto, almeno una buona parte di
ciò che pensava nei confronti dei ritardi della chiesa. Anche pochi
giorni prima di morire ha parlato, come è noto, di un ritardo secolare
della chiesa.
È il ritardo del mancato confronto con la modernità e, di conseguenza,
del mancato rinnovamento che ne deriverebbe. La chiesa che condanna e
non si confronta con gli uomini e le donne del suo tempo è vittima
delle sue paure. La paura paralizza le istanze di rinnovamento. Ma
perché — si chiede Martini — la chiesa ha paura? Certo, non è mai
facile vincere le paure. Non dimentichiamo però che sono indice della
nostra carenza di fede.Ma che cosa altri temevano dalle sue eventuali
esternazioni? Che cosa precipuamente Martini pensava nel lamentare
ritardi e paure? Mi pare che ci si debba dunque interrogare su che cosa
gli stesse piú a cuore.
* * *
Che cosa stava piú a cuore a Carlo Maria Martini sul futuro ecclesiale?
Certamente egli amava la chiesa del concilio: una chiesa radicata sulla
parola di Dio e centrata sulla comunione dello Spirito, una chiesa in
dialogo all'interno del cammino dell'umanità di oggi e capace di
autentica testimonianza.
Nel perseguire qualsiasi obiettivo riguardante vita e prassi
ecclesiali, ciò che maggiormente lo interessava era il metodo con cui
interrogarsi alla ricerca di soluzioni positive e coerenti con il
vangelo.
È indubbio che in più contesti Martini abbia portato l'attenzione su
questioni delicate e controverse sia di attualità ecclesiale, sia di
ordine etico e pastorale. Non ha però mai sentenziato su come si
dovessero risolvere i problemi. La pretesa di avere e imporre risposte
non è mai delle persone intelligenti. L'uomo di chiesa con
l'intelligenza di Martini non esibisce proprie convinzioni personali.
Anzi spesso ritiene di non averne, se non quelle che saranno frutto di consenso ecclesiale.
Il suo stare nel mezzo delle tensioni ecclesiali, il suo «grido
d'intercessione», non consisteva nell'indicare soluzioni, moderate o
riformiste che fossero. Ma nel richiamare la necessità che le questioni
venissero affrontate in modo sinodale e responsabile. Sempre alla
ricerca di risposte capaci di sciogliere contrasti e oltrepassare
tensioni. Tensioni tra esigenze e verità contrapposte e apparentemente
non componibili.
Sinodalità e dialogo ecumenico
Martini in particolare desiderava una chiesa cattolica piú sinodale e
più ecumenica. Innanzitutto la ricerca sinodale. Era infatti la chiesa
del Signore delineata dal concilio che gli stava a cuore. In essa ci si
mette anche in ascolto dello Spirito che parla alle chiese e del sensus
fidei presente nel popolo di Dio.
È in questa ottica che sentiva l'esigenza di nuove convocazioni
conciliari che però si limitassero a poche ma essenziali questioni.
Riteneva infatti che l'attuale configurazione del sinodo dei vescovi
fosse insufficiente per esprimere la collegialità
episcopale e offrire al Papa, sulle
questioni più controverse, una reale collaborazione nel difficile
e complesso governo della chiesa. La dimensione sinodale della vita
ecclesiale, oltre a implicare l'ascolto, promuove il dialogo. Dialogo
non solo interno alla chiesa, ma anche tra le chiese e con le persone
di buona volontà, a qualsiasi fede o visione del mondo si ispirino. Nel
parlare di dialogo Martini insisteva sempre sulla concretezza delle
relazioni. I dialoghi, che chiamiamo ecumenici e interreligiosi,
avvengono di fatto tra persone umane e non tra sistemi astrattamente
considerati.
Di questa forma di dialogo con le persone è stato un protagonista nella
città e nella chiesa locale. Ma non meno con esponenti della cultura a
livello mondiale. Per moltissime di queste personalità, di qualunque
credo fossero, venire a Milano o in Italia significava anche chiedere
un incontro personale con l'arcivescovo Martini. L'elenco di questi
incontri sarebbe interminabile.
La proiezione europea della sua apertura al dialogo ecumenico si era
manifestata già negli anni dal 1986 al 1993, in cui è stato presidente
del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (CCEE), organismo che
egli ha guidato a collaborare in modo molto intenso e proficuo con la
Conferenza delle Chiese Europee, la KEK, che comprende
tutte le chiese ortodosse ed evangeliche. Dei vari eventi
interconfessionali celebrati in quegli
anni basta ricordare quello storico
della prima Assemblea Ecumenica Europea
"Pace nella giustizia", che si
tenne nel maggio 1989 a Basilea
sotto la copresidenza di Martini e di Aleksej II, allora
metropolita di San Pietroburgo e divenuto poi patriarca di Mosca.
Ricordo che Martini, al ritorno da Basilea, me ne parlò come di una
nuova pentecoste.Aveva percepito il dono dello Spirito che improvviso
si era sprigionato a portare a conclusione unitaria posizioni
divergenti che, fino a poche ore prima, apparivano per nulla
componibili.
In casa cattolica Martini era stato lasciato solo nella preparazione di
Basilea. L'evento ebbe molta rilevanza in Europa e un quasi totale
silenzio stampa in Italia. Perché? Probabilmente sinodalità e dialogo,
che l'iniziativa europea di Martini coltivava, preoccupavano Roma. Non
era forse gradita la prospettiva di quel camminare insieme dei
cristiani in un dialogo tra loro e con le realtà storiche impegnate ad
affrontare questioni cruciali per l'umanità di oggi: la giustizia, la
pace, la salvaguardia del creato. Quella prospettiva avrebbe potuto
mettere in ombra il ruolo centrale di protagonista del dialogo e di
rappresentante dell'intera cristianità che il pontificato di Giovanni
Paolo II ha inteso esercitare. In ambito ecumenico, poi, Roma
preferisce sempre i dialoghi bilaterali. Resta assai meno coinvolgibile
in iniziative multilaterali promosse da terzi.
Chi non gradiva l'indubbio successo di Basilea doveva trovare il modo
di sostituire Martini nel suo ruolo di presidente dei vescovi d'Europa.
L'obiettivo fu raggiunto mutando lo statuto in modo che del CCEE
divenissero membri solo i presidenti delle conferenze episcopali
nazionali. Martini, che non era presidente della CEI ma eletto a
rappresentarla nel CCEE, non ne avrebbe fatto più parte. Cosí nel 1993
finisce il suo servizio di presidenza europea. In quello stesso
anno inizia il 47° sinodo della chiesa ambrosiana. Viene
così, nella sua diocesi, a estendersi la positiva esperienza di
sinodalità intorno al vescovo, che Martini ha sempre promosso con
grande attenzione nei vari consigli diocesani.
Frutto del sinodo diocesano e del dialogo ecumenico a livello locale
nasce nel gennaio 1998 il Consiglio delle Chiese Cristiane di Milano.
Martini lo inaugura alla luce della parola di Romani 8,26: Lo Spirito
viene in aiuto alla nostra debolezza. Mi suggerisce di evitare
enfatizzazioni di questa piccola, ma importante, esperienza di
sinodalità ecumenica per non esporla a rischi e malintesi. Se si resta
consapevoli del nostro essere piccoli e deboli, lo Spirito soffia come
vento in poppa. Finora cosí è stato.
Quando, all'inizio del luglio 2002, in vista del suo congedo da Milano,
gli chiedemmo come Consiglio delle Chiese Cristiane di salutarlo
e ringraziarlo per la sua grande opera in campo ecumenico, ci rispose
che riteneva di non aver fatto nulla di particolare o di specifico per
l'ecumenismo. Il suo ecumenismo era consistito solo nell'essere fedele
allo spezzare il pane della Parola, luce sul cammino di tutti, e nel
favorire rapporti di carità fraterna. Volesse il cielo che sempre e
ovunque fosse così!
Nell'ora dell'ultimo congedo
Il 31 agosto 2012 si conclude il percorso terreno della
vita di Carlo Maria Martini. Il suo ultimo congedo avviene
nell'arco dell'ora nona di un venerdì. Come per Gesù sulla croce.
Avviene mentre su Milano appare un significativo arcobaleno a
congiungere cielo e terra: il segno che la Bibbia indica come simbolo
universale dell'alleanza di Dio con l'umanità. Coincidenze soltanto
casuali? Certamente non casuale il fatto che davanti alla casa di
Gallarate, ove un cardinale stava morendo, si fossero recati in
incognito e stessero ritti a pregare per lui i Salmi un rabbino, nel
cuore della notte precedente, e, proprio alla sua ultima ora, un ebreo
osservante: avevano saputo dell'aggravarsi della malattia. Gesti che
quanto più sono stati voluti silenziosi e anonimi tanto più diventano
eloquenti.
Ha così inizio la nuova fase della vita di un giusto. E immediatamente
si svela la fecondità di ciò che è stato il vescovo Carlo Maria. La
processione di persone alle sue spoglie esposte in Duomo e l'eco
internazionale del ricordo commosso della sua testimonianza ne
sono i primi segni. Unanime e popolare l'enorme risposta di
uomini e donne, giovani e anziani, praticanti e diversamente credenti,
religiosi e laici. Una risposta senza precedenti. Esprimeva sia la
convinzione di aver perduto una irripetibile figura di fratello in
umanità e di maestro nella fede, sia la percezione di poter dire che
quella morte era un promettente evento di vita. Di una inarrestabile
vita dello Spirito. Inconsistenti e risibili le voci discordanti. Da
leggere comunque a conferma dell'autenticità evangelica della vita
diMartini.
La sua sepoltura presso il crocifisso di S. Carlo nel Duomo di Milano è
attorniata da una folta e permanente quantità di candele accese dai
fedeli, quasi a dire che la Parola spezzata dal vescovo Carlo Maria
continua a fare luce sul cammino degli uomini e delle donne di oggi.
Sulla sua sepoltura, che un tempo Martini aveva sperato potesse
avvenire nella terra santa a conclusione del suo soggiorno a
Gerusalemme, sono state gettate alcune manciate della terra di Israele.
Un bellissimo gesto simbolico pensato e donato da parte ebraica.
Grazie all'amore di Martini per il popolo dell'alleanza mai revocata e
all'affetto verso di lui da parte di molti ebrei, nella cattedrale di
Milano è dunque deposta terra proveniente da Gerusalemme. Ci si
dovrebbe interrogare sul senso di questo piccolo, ma prezioso segno.
Barth aveva detto: non ci sarà unità dei cristiani, finché non
muteranno le nostre relazioni con il popolo ebraico. Martini ripeteva:
non ci sarà pace nel mondo, finché non ci sarà pace a Gerusalemme. Ora
il segno di quella sepoltura in Duomo suggerisce: non ci sarà nella
chiesa conversione alla parola di Dio, finché non ci sarà un ritorno
all'ebraicità della fede di Gesú e del suo vangelo. In questo potrebbe
consistere il cuore di ciò che Martini ci lascia: la riscoperta della
fede di Gesú. Una fede ricchissima di umanità e vissuta nel cammino del
suo popolo. Una fede tutta permeata dallo Spirito di Dio Padre e dalla
perenne novità del suo amore. Una fede libera e adulta. Fatta non di
dottrine astratte, ma di un radicalmente nuovo stile di vita. Forse è
proprio questa luce della fede di Gesú, figlio del suo popolo e Parola
di Dio fatta carne, la lucerna che Carlo Maria ci ha acceso. Perché
illumini il futuro cammino dei cristiani.
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