QUELLI DELLA VIA
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Un Padre della Chiesa
di Gianfranco Bottoni


«Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino». Il versetto del Salmo 119 che Carlo Maria Martini ha scelto per la lapide della sua sepoltura sintetizza il senso profondo della sua spiritualità e della sua testimonianza.

La sua icona
In quelle parole è come contenuto il suo più intimo segreto. Potremmo dire che vi si può leggere l'icona della sua esistenza. Egli, commentando la Bibbia, ricorreva spesso a immagini o intuizioni che chiamava icone: le usava per indicare in sintesi il messaggio dei testi che stava illustrando. Ora, al termine della vita terrena, è di sé e del suo episcopato che, con le parole del Salmo, ci ha regalato la migliore icona che potesse rappresentarlo. Essa rimane la vera chiave ermeneutica della sua singolare personalità di uomo di Dio. Per chi l'ha ascoltato e seguito come pastore non c'è infatti alcun dubbio che il suo servizio alla chiesa scaturisse dall'amore della parola di Dio scoperta nelle Scritture. In particolare scaturiva dal suo amore per la straordinaria umanità della persona di Gesù, la parola di Dio fatta carne. Lucerna accesa sui suoi passi è stato sempre e soltanto il messaggio di Gesù letto nel solco della tradizione biblica. Ma anche riletto nell'ascolto del cuore umano e delle inquietudini del mondo di oggi.
Egli era cosciente che solo nella parola di Dio si trovava la forza decisiva per il suo ministero. La custodiva con fedeltà e la coniugava con la spiritualità  ignaziana  a cui si è riferita la formazione religiosa ricevuta nella Compagnia di Gesù. E con acuta sagacia, da vero maestro, la offriva a tutti per edificare  la chiesa del concilio.  Il concilio Vaticano II, soprattutto con la  Dei Verbum  e la  Lumen Gentium, aveva inteso mettere le Scritture nelle mani del popolo di Dio, perché se ne nutrisse per la vita delle comunità ecclesiali. A questo obiettivo ha subito mirato la sua guida di pastore.

Arcivescovo di Milano
Infatti Martini ha subito condotto la sua chiesa a riscoprire la dimensione contemplativa della vita, tema cui dedica la prima lettera pastorale, perché essa si lasciasse generare dalla parola di Dio e mettesse al suo centro l'eucaristia che la edifica come corpo di Cristo, per poter vivere in comunione con lui la sua stessa carità di buon Samaritano che si fa prossimo. Parola, eucaristia, carità: a questa triade  Martini  ha  ricondotto  carismi  e  ministeri  dell'intera  pastorale  della  chiesa,  di  una  chiesa conciliare che viva nello stile del vangelo. Martini vi dedica il primo periodo del suo episcopato. E su questi tre pilastri si fonderà la stessa architettura del suo sinodo diocesano. Già il suo ingresso a Milano come arcivescovo, nel febbraio 1980, preannunciava uno stile nuovo. Aveva voluto camminare per le vie della città tenendo in mano il Nuovo Testamento tradotto in lingua corrente. Il segno del camminare con il libro della Parola tra la gente, in mezzo alle case, come uno tra gli altri, diceva l'assoluta novità di uno stile evangelico. Allo stile profetico e itinerante di Gesù e al senso profondo di quel gesto inaugurale è rimasto fedele nei suoi ventidue anni di servizio alla chiesa milanese.
Perché il testo della traduzione interconfessionale in lingua corrente? Lui, studioso a livello mondiale di critica testuale e di filologia neotestamentaria, con quella scelta preannunciava ciò che avrebbe fatto con la sua predicazione e con la scuola della Parola: non più il biblista dell'esegesi scientifica, ma il pastore che, commentando le Scritture, spezza il pane della Parola perché sia commestibile per tutti enutra la fede del popolo sulle vie dell'unità. Lo attesta lo straordinario successo editoriale delle sue pubblicazioni, più numerose di quelle dei più prolifici e facondi padri della chiesa.

Intelligenza e santità

Ricca e poliedrica, affascinante e complessa è stata la personalità di Martini. Al punto che, nel momento in cui ci si accinge a scriverne, al di là dell'icona da lui stesso suggerita, si resta come travolti e quasi paralizzati da una quantità di suggestioni e di ricordi, di idee e di interpretazioni della sua figura di uomo di chiesa. Nella commozione per la sua recente dipartita molte cose sono già state dette sulla straordinaria luminosità del suo episcopato. Ma persino gli interventi che meglio colgono nel segno risultano sempre parziali e riduttivi.
Toccherà alla ricerca storica studiare a lungo e con obiettività nei prossimi decenni scritti e documenti, fatti e azioni del suo ministero pastorale, della sua profonda umanità e della sua produzione scientifica e spirituale. Presumo che gli storici confermeranno una convinzione che è di molti, non solo mia: con Martini siamo stati posti di fronte alla gigantesca figura di un padre della chiesa dei nostri giorni. Un pastore  e dottore in cui intelligenza e santità si sono compenetrate  come nei grandi geni cristiani dell'epoca patristica.
Ora tenere insieme intelligenza e santità non è dono comune né frequente. Anzi. È invece proprio ciò che, nella fase di inculturazione della fede e di nascita della religione cristiana, caratterizzò le figure di coloro che la tradizione cristiana chiama padri della chiesa. Così è stato anche per Martini. C'è però una differenza rispetto all'epoca patristica. Allora, l'intelligenza cristiana era chiamata a essere creativa e propulsiva di un nuovo modo di pensare che fosse coerente con la fede in Cristo. Oggi, con l'avvento della modernità e di una cultura secolarizzata, l'intelligenza del credente non risulta di fatto all'altezza di una missione per i nostri tempi, se non sa dotarsi di profonda capacità di ascolto del cuore dell'uomo contemporaneo e di perspicace senso critico nei confronti della stessa esperienza religiosa.
Essere padre della chiesa oggi non è la stessa cosa che nei primi secoli del cristianesimo.
È carisma che, per le attuali complessità, risulta assai raro e del tutto prezioso. E, proprio per questo, esposto ai rischi di viscerali avversioni. Già il suo motto episcopale Pro veritate adversa diligere, che rimanda alla figura e agli scritti pastorali di Gregorio Magno, aveva lucidamente preconizzato la testimonianza di un amore intelligente che, per la ricerca del vero, non si sottrae a difficoltà e avversità.
Lo straordinario carisma che fa di Carlo Maria Martini un  padre della chiesa  è  consistito proprio nell'aver saputo coniugare intelligenza critica e santità biblica. Una acuta e vivace intelligenza, che si lascia interpellare e mettere in discussione per poter condividere il cammino di chi pensa e ricerca. Un ascolto obbediente della parola di Dio, dalla cui luce egli si faceva guidare nel cammino della vita e della storia.

Cercare insieme: La Cattedra dei non credenti
Con il lume acceso della parola di Dio non temeva di avventurarsi nell'oscurità di percorsi inesplorati, di inoltrarsi nelle vicende concrete e drammatiche dell'umanità del nostro tempo. Che cosa vi cercava? Come Gesú con la samaritana, anch'egli aveva sete di ascoltare il cuore umano e di scoprirvi la sete di Dio. Una sete spesso inconscia, ma frutto dell'opera nascosta dello Spirito. Per questo Martini usciva dai soliti confini a incontrare le persone che si considerano non credenti o agnostiche, ma pensanti e in ricerca. Gli interessavano i cammini attraverso percorsi anche molto diversi da quelli della propria fede.  Ne  percepiva  le  irriducibili  differenze,  ma  sapeva  stupirsi  anche  di  alcune  impensate consonanze.
Dello Spirito, che suscita imprevedibili sintonie, poté scrivere:
Lo Spirito c'è, anche oggi, come al tempo di Gesù e degli Apostoli: c'è e sta operando, arriva prima di noi, lavora  più  di noi e meglio di noi; a noi non tocca né seminarlo né svegliarlo, ma anzitutto riconoscerlo, accoglierlo, assecondarlo, fargli strada, andargli dietro. C'è e non si è mai perso d'animo rispetto al nostro tempo; al contrario sorride, danza, penetra, investe, avvolge, arriva anche là dove mai avremmo immaginato. (Tre racconti dello Spirito, 1997).
La Cattedra dei non credenti  è stata certamente l'intuizione  più emblematica e più apprezzata  di questo suo discernimento spirituale. E della conseguente apertura mentale al  dialogo. Ma di un dialogo che doveva innanzitutto essere interiore a ogni persona: il dialogo tra il credente e il non credente che c'è in ciascuno di noi. Soltanto affermare che credenti e non credenti non sono due mondi distinti e contrapposti fa crollare muri di  separazione, al confronto dei quali la caduta del muro di Berlino appare, se così si può dire, una inezia.
Colpiva il fatto che un vescovo cristiano di fede granitica riconoscesse il proprio non credere e lo mettesse in cattedra accanto al proprio credere. E questo doveva valere per ogni suo interlocutore, per ogni relatore invitato alla cattedra, in qualunque posizione questi si pensasse rispetto alla fede. Per Martini, questa della cattedra, è stata un'avventura dello spirito tra le più avvincenti della sua vita. Lo confidava lui stesso

Comunicare e parlare alla città
Il grande successo della Cattedra dei non credenti e la sua accoglienza nel mondo laico come l'evento culturalmente più significativo nella Milano di quegli anni stanno a indicare quanto Martini sapesse parlare alla città. Già le sue lettere pastorali, veri testi di fede, venivano lette e gustate anche da chi non era familiare ai temi religiosi. Scritte in linguaggio curato e a tutti accessibile, prive di moralismi o di astrazioni dottrinali, non hanno nulla del gergo clericale. In ogni occasione Martini è stato un comunicatore serio e incisivo, molto attento ai destinatari del suo messaggio. E non privo di un sottile senso dell'umorismo. Ha saputo tenere un ottimo rapporto nei confronti dei mass-media, da cui era ricercato con stima e rispetto. Apprezzava la professione giornalistica. Vi si è riconosciuto, negli ultimi anni, per la sua collaborazione con il Corriere della sera, che gli ha permesso, malgrado la malattia, di dialogare con molta gente attraverso le sue risposte alle molte lettere che i lettori gli inviavano. Proprio al comunicare aveva dedicato Effatà, apriti! (1990) e Il lembo del mantello (1991), due importanti lettere pastorali che seguirono il ciclo dedicato al tema dell'educare. Ma la sua forza di comunicare e di porsi come autorità morale per la vita civile, nei difficili anni di piombo e di tangentopoli, è maggiormente emersa in interviste e nei suoi famosi discorsi alla città. Quelli delle vigilie di Sant'Ambrogio. Lì ha saputo parlare ai cittadini e alle istituzioni pubbliche con coraggio e fermezza, con altissimo senso etico e grande passione civile, con la chiaroveggenza di vedere in anticipo questioni sociali e culturali ineludibili.
Interventi che, ad anni di distanza, restano bussole di riferimento. Ne cito solo alcuni titoli: Educare alla politica (1987); Per una città e un'Europa accogliente (1989); Noi e l'islam (1990); Alzati, va' a Ninive, la grande città (1991); Esiste ancora la solidarietà in Europa? (1992); Alla fine del millennio, lasciateci sognare (1996); Il seme, il lievito e il piccolo gregge (1998); Terrorismo, ritorsione, legittima difesa, guerra e pace (2001); Paure e speranze di una città (2002).

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Carlo Maria Martini al termine del suo mandato a Milano, pochi giorni prima di lasciare l'arcivescovado, mi disse che stava completando la stesura scritta di una sua mappa settimanale finalizzata alla propria preghiera di intercessione. Per ogni giorno della settimana e per i vari tempi di orazione, in quella mappa aveva elencato nominativamente persone e comunità, categorie e situazioni,problemi e necessità. Evidentemente lo scopo era di ricordare tutti e di non dimenticare nessuno di coloro che si era preso a carico dinanzi a Dio. Lasciava Milano e la diocesi, ma portava con sé volti e problemi della sua gente. Si sarebbe presto trasferito a Gerusalemme. Vi portava nel suo spirito la grande chiesa del Signore. La chiesa senza confini che aveva amato e servito, il popolo che il pensare in grande di Dio estende a tutta l'umanità. Portava con sé coloro che aveva incontrato. Con le loro ferite, che aveva curato e che erano ancora da lenire. Con i loro doni e progetti, che erano sempre da sostenere. Per ciascuna intenzione di preghiera poteva così assicurare la sua costante invocazione a Dio.
Soprattutto all'intercessione per la pace intendeva dedicarsi in Gerusalemme. In nessun altro luogo avrebbe potuto farlo con uguale intensità e pregnanza. Infatti ripeteva spesso che non potrà mai esserci pace sulla terra, finché non si sarebbero risolti i conflitti in quella città, la città santa per le tre religioni monoteiste. E la intercessione non si limita a preghiere innalzate nel rifugio sicuro della propria stanza. È invece connessa con il rischio di agire.
Intercedere, infatti, significava, per Martini, fare dei passi, entrare in situazioni complesse. Camminare per andare a porsi in mezzo, tra due soggetti in conflitto. E saper stare lì stendendo le braccia fino a tenere le proprie mani sulle spalle di entrambi gli antagonisti. E l'intercessore deve saper resistere fermo in quella scomoda posizione finché il conflitto non venga risolto. Resistere anche a costo di andarci di mezzo, di subire rifiuti e violenze, di fallire l'obiettivo e di pagare di persona. Questo, per Martini, il senso della intercessione.
A Gerusalemme, ove le tensioni religiose sono molteplici e il nodo del conflitto israelo-palestinese appare insolubile, egli andava senza sapere che cosa lo attendeva. Lo dichiarò lui stesso a Efeso, poche settimane prima della conclusione del suo episcopato ambrosiano. Vi sarebbe dunque andato come Paolo: mosso dallo Spirito. Sfidava il rischio di non essere capito, ma con la fermezza del proposito con cui Gesù decise di dirigersi alla città dell'offerta. Martini aveva invitato la sua stessa diocesi, riunita in sinodo dal 1993 al 1995, ad assumere come icona per il proprio cammino il firmavit faciem suam, di cui parla Luca 9, 51: la ferma decisione di Gesú di «mettersi in cammino verso Gerusalemme».
Anche la chiesa, chiamata a volgere sguardo e passi verso Gerusalemme, ha da essere luogo di intercessione all'interno dell'intera umanità. Ora, per rendere manifesta l'opera di riconciliazione del Cristo, che dei due popoli — Israele e le genti — ha fatto una cosa sola, i cristiani devono rivedere la propria autocoscienza nei confronti del popolo ebraico. A questo proposito Martini aveva avuto parole
forti e ripeteva la necessità di non limitarsi a condannare l'antigiudaismo. Diceva che, molto di più, bisogna «essere per il popolo ebraico, per la sua cultura, per la sua storia, per la sua straordinaria testimonianza religiosa». Con Rav Giuseppe Laras tenne nel 1990 il primo incontro pubblico, nella storia di Milano, tra arcivescovo e rabbino capo. E nel 1993 insieme commentarono lo Shemà Israel in apertura di uno studio biblico ebraico-cristiano. Si incontrarono in sinagoga e in più occasioni Laras ha avuto per lui grande ammirazione e fraterno affetto.

Stare in mezzo alle tensioni ecclesiali
L'intercedere, nel significato pregnante e rischioso inteso da Martini, come può concretarsi per la chiesa, per il suo camminare in mezzo all'umanità di oggi e ai suoi problemi? Sono certo che nella prospettiva spirituale dell'intercessione da lui vissuta rientrava anche quel mettersi in mezzo rispetto a ciò che oggi risulta più conflittuale nei cammini di fede e nella vita ecclesiale. C'è spesso incomprensione tra chi ha il cuore ferito per le prove o le sconfitte della propria vita e chi le giudica secondo principi cristiani e regole coerenti, ma rigide. Nascono così tensioni tra attese e risposte. E si vengono a fronteggiare prospettive contrastanti, con ripercussioni all'interno della chiesa. Martini ne soffriva. Non fuggiva però questi problemi e aveva il coraggio di affrontarli. Nell'ottica dell'intercedere, appunto.
Quando se ne parlava, mi colpiva il suo essere in ascolto attento e solidale nei confronti di entrambe le parti, malgrado le loro forti divergenze. Da una parte egli era in piena comunione con la chiesa istituzionale di cui condivideva i principi dottrinali. Dall'altra era in fraterna ed evangelica prossimità verso coloro che soffrono di essere in situazioni difficili o di sentirsi rifiutati dalla religione della chiesa. Il suo stare nel mezzo non era tenere posizioni mediane tra quelle contrapposte. Era il tentativo di assumere un atteggiamento coerente con la sua metafora dell'intercessore. Il tentativo di stare in mezzo tenendo le mani sulle spalle di entrambe le parti contrapposte. Farsi carico del sentire delle persone, quando questo appare conflittuale con il pensiero della chiesa. E restare in sintonia con il sentire della chiesa che non dimentica il vangelo di Gesú Cristo. Ecco una inedita forma di intercedere.
A questo proposito ricordo alcune conversazioni successive al suo rientro in Italia per la malattia. Mi confidava che, prima di chiudere i suoi giorni sulla terra, sentiva il dovere di parlare, di toccare pubblicamente alcuni temi scottanti. Sarebbe stato come levare un grido d'intercessione. Un appello a ridurre le distanze tra chi è in cerca di misericordia e chi ha il difficile compito di amministrarla. Ma c'era chi, pur essendogli amico e riconoscendo l'autenticità dei suoi intenti, temeva che alcune sue osservazioni risultassero critiche. Gli equilibri ecclesiastici spesso si reggono sui silenzi che evitano le questioni scomode. E la voce di chi vi fa risuonare una parola in nome del vangelo risulta destabilizzante.
Martini si sentiva pertanto in dovere di calibrare la portata dei suoi interventi. Non voleva, infatti, ferire nessuno e tanto meno creare contrapposizioni. La sua solidarietà con la chiesa istituzionale, di cui era esponente autorevole, era fuori discussione. Ma era pure convinto di non dover tacere. Sarebbe stato tradire il vangelo. Doveva dunque dare voce a chi non può averla e ne patisce le conseguenze. A volte, sapendo che le strutture ecclesiastiche non erano ancora pronte a recepire le istanze che egli avrebbe espresso, ricorreva alla metafora del sogno. Il sogno di una futura chiesa. Il sogno di una chiesa fatta di comunità alternative rispetto alle logiche del mondo o della religione del senso comune.
Il sogno di un nuovo concilio per discutere alcune questioni rimaste escluse dall'agenda del Vaticano II oppure emerse piú recentemente.

Con lo sguardo in avanti
Ma perché parlare, se sapeva che per ora non sarebbe state ascoltato? Donde scaturiva questa sua esigenza di parresia, anche se temperata da un alto senso di responsabilità e di carità? La motivazione che lo muoveva non era ideologica, come qualcuno stoltamente pensa. Egli non cercava protagonismi, né leadership su posizioni di avanguardia. La sua esigenza di dire cose scomode nasceva invece da una intuizione per nulla ovvia e molto acuta. Mosso dal suo eccezionale senso della chiesa gli interessava soltanto un obiettivo: creare nella tradizione cristiana un precedente da consegnare al futuro della chiesa. Quale precedente? Quello di un cardinale, arcivescovo di una grande sede episcopale, che non ha taciuto temi scomodi, che ha rotto i silenzi della chiesa del suo tempo, che ha indicato la necessità di affrontare questioni urgenti.
Ciò che oggi a taluni appare tema prematuro domani sarà inevitabile argomento di discussione. Ed è davvero di altissimo profilo la motivazione con cui Martini si determinava a parlare: seminare nella storia della tradizione cristiana affermazioni e istanze, che avrebbero potuto essere successivamente riprese come qualificati precedenti per future e ineludibili decisioni di aggiornamento nel cammino della chiesa. Vi aggiungeva la sua fiducia nell'opera futura dello Spirito all'interno della chiesa.
Ora non si tratta né di anestetizzare la portata dei suoi interventi, né di leggerli come uscite di rottura. La preoccupazione per l'unità ecclesiale ha sempre prevalso in lui. Per questo ha potuto avere la forza di dire, anche se non proprio tutto, almeno una buona parte di ciò che pensava nei confronti dei ritardi della chiesa. Anche pochi giorni prima di morire ha parlato, come è noto, di un ritardo secolare della chiesa.
È il ritardo del mancato confronto con la modernità e, di conseguenza, del mancato rinnovamento che ne deriverebbe. La chiesa che condanna e non si confronta con gli uomini e le donne del suo tempo è vittima delle sue paure. La paura paralizza le istanze di rinnovamento. Ma perché — si chiede Martini — la chiesa ha paura? Certo, non è mai facile vincere le paure. Non dimentichiamo però che sono indice della nostra carenza di fede.Ma che cosa altri temevano dalle sue eventuali esternazioni? Che cosa precipuamente Martini pensava nel lamentare ritardi e paure? Mi pare che ci si debba dunque interrogare su che cosa gli stesse piú a cuore.

*   *   *

Che cosa stava piú a cuore a Carlo Maria Martini sul futuro ecclesiale? Certamente egli amava la chiesa del concilio: una chiesa radicata sulla parola di Dio e centrata sulla comunione dello Spirito, una chiesa in dialogo all'interno del cammino dell'umanità di oggi e capace di autentica testimonianza.
Nel perseguire qualsiasi obiettivo riguardante vita e prassi ecclesiali, ciò che maggiormente lo interessava era il metodo con cui interrogarsi alla ricerca di soluzioni positive e coerenti con il vangelo.
È indubbio che in più contesti Martini abbia portato l'attenzione su questioni delicate e controverse sia di attualità ecclesiale, sia di ordine etico e pastorale. Non ha però mai sentenziato su come si dovessero risolvere i problemi. La pretesa di avere e imporre risposte non è mai delle persone intelligenti. L'uomo di chiesa con l'intelligenza di Martini non esibisce proprie convinzioni personali.
Anzi spesso ritiene di non averne, se non quelle che saranno frutto di consenso ecclesiale.
Il suo stare nel mezzo delle tensioni ecclesiali, il suo «grido d'intercessione», non consisteva nell'indicare soluzioni, moderate o riformiste che fossero. Ma nel richiamare la necessità che le questioni venissero affrontate in modo sinodale e responsabile. Sempre alla ricerca di risposte capaci di sciogliere contrasti e oltrepassare tensioni. Tensioni tra esigenze e verità contrapposte e apparentemente non componibili.

Sinodalità e dialogo ecumenico
Martini in particolare desiderava una chiesa cattolica piú sinodale e più ecumenica. Innanzitutto la ricerca sinodale. Era infatti la chiesa del Signore delineata dal concilio che gli stava a cuore. In essa ci si mette anche in ascolto dello Spirito che parla alle chiese e del sensus fidei presente nel popolo di Dio.
È in questa ottica che sentiva l'esigenza di nuove convocazioni conciliari che però si limitassero a poche ma essenziali questioni. Riteneva infatti che l'attuale configurazione del sinodo dei vescovi fosse insufficiente  per esprimere la  collegialità  episcopale  e  offrire  al  Papa,  sulle  questioni  più controverse, una reale collaborazione nel difficile e complesso governo della chiesa. La dimensione sinodale della vita ecclesiale, oltre a implicare l'ascolto, promuove il dialogo. Dialogo non solo interno alla chiesa, ma anche tra le chiese e con le persone di buona volontà, a qualsiasi fede o visione del mondo si ispirino. Nel parlare di dialogo Martini insisteva sempre sulla concretezza delle relazioni. I dialoghi, che chiamiamo ecumenici e interreligiosi, avvengono di fatto tra persone umane e non tra sistemi astrattamente considerati.
Di questa forma di dialogo con le persone è stato un protagonista nella città e nella chiesa locale. Ma non meno con esponenti della cultura a livello mondiale. Per moltissime di queste personalità, di qualunque credo fossero, venire a Milano o in Italia significava anche chiedere un incontro personale con l'arcivescovo Martini. L'elenco di questi incontri sarebbe interminabile.
La proiezione europea della sua apertura al dialogo ecumenico si era manifestata già negli anni dal 1986 al 1993, in cui è stato presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (CCEE), organismo che egli ha guidato a collaborare in modo molto intenso e proficuo con la Conferenza delle Chiese Europee, la  KEK,  che comprende tutte le chiese ortodosse ed evangeliche. Dei vari eventi interconfessionali  celebrati  in  quegli  anni  basta  ricordare  quello  storico  della  prima  Assemblea Ecumenica  Europea  "Pace  nella  giustizia",  che  si  tenne  nel  maggio  1989  a  Basilea  sotto  la copresidenza di Martini e di Aleksej II, allora metropolita di San Pietroburgo e divenuto poi patriarca di Mosca. Ricordo che Martini, al ritorno da Basilea, me ne parlò come di una nuova pentecoste.Aveva percepito il dono dello Spirito che improvviso si era sprigionato a portare a conclusione unitaria posizioni divergenti che, fino a poche ore prima, apparivano per nulla componibili.
In casa cattolica Martini era stato lasciato solo nella preparazione di Basilea. L'evento ebbe molta rilevanza in Europa e un quasi totale silenzio stampa in Italia. Perché? Probabilmente sinodalità e dialogo, che l'iniziativa europea di Martini coltivava, preoccupavano Roma. Non era forse gradita la prospettiva di quel camminare insieme dei cristiani in un dialogo tra loro e con le realtà storiche impegnate ad affrontare questioni cruciali per l'umanità di oggi: la giustizia, la pace, la salvaguardia del creato. Quella prospettiva avrebbe potuto mettere in ombra il ruolo centrale di protagonista del dialogo e di rappresentante dell'intera cristianità che il pontificato di Giovanni Paolo II ha inteso esercitare. In ambito ecumenico, poi, Roma preferisce sempre i dialoghi bilaterali. Resta assai meno coinvolgibile in iniziative multilaterali promosse da terzi.
Chi non gradiva l'indubbio successo di Basilea doveva trovare il modo di sostituire Martini nel suo ruolo di presidente dei vescovi d'Europa. L'obiettivo fu raggiunto mutando lo statuto in modo che del CCEE divenissero membri solo i presidenti delle conferenze episcopali nazionali. Martini, che non era presidente della CEI ma eletto a rappresentarla nel CCEE, non ne avrebbe fatto più parte. Cosí nel 1993 finisce  il suo servizio di presidenza europea. In quello stesso anno  inizia  il 47° sinodo della chiesa ambrosiana. Viene così, nella sua diocesi, a estendersi la positiva esperienza di sinodalità intorno al vescovo, che Martini ha sempre promosso con grande attenzione nei vari consigli diocesani.
Frutto del sinodo diocesano e del dialogo ecumenico a livello locale nasce nel gennaio 1998 il Consiglio delle Chiese Cristiane di Milano. Martini lo inaugura alla luce della parola di Romani 8,26: Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza. Mi suggerisce di evitare enfatizzazioni di questa piccola, ma importante, esperienza di sinodalità ecumenica per non esporla a rischi e malintesi. Se si resta consapevoli del nostro essere piccoli e deboli, lo Spirito soffia come vento in poppa. Finora cosí è stato.
Quando, all'inizio del luglio 2002, in vista del suo congedo da Milano, gli chiedemmo come Consiglio delle Chiese Cristiane  di salutarlo e ringraziarlo per la sua grande opera in campo ecumenico, ci rispose che riteneva di non aver fatto nulla di particolare o di specifico per l'ecumenismo. Il suo ecumenismo era consistito solo nell'essere fedele allo spezzare il pane della Parola, luce sul cammino di tutti, e nel favorire rapporti di carità fraterna. Volesse il cielo che sempre e ovunque fosse così!

Nell'ora dell'ultimo congedo
Il  31 agosto  2012 si conclude il percorso terreno della vita  di  Carlo Maria Martini. Il suo ultimo congedo avviene nell'arco dell'ora nona di un venerdì. Come per Gesù sulla croce. Avviene mentre su Milano appare un significativo arcobaleno a congiungere cielo e terra: il segno che la Bibbia indica come simbolo universale dell'alleanza di Dio con l'umanità. Coincidenze soltanto casuali? Certamente non casuale il fatto che davanti alla casa di Gallarate, ove un cardinale stava morendo, si fossero recati in incognito e stessero ritti a pregare per lui i Salmi un rabbino, nel cuore della notte precedente, e, proprio alla sua ultima ora, un ebreo osservante: avevano saputo dell'aggravarsi della malattia. Gesti che quanto più sono stati voluti silenziosi e anonimi tanto più diventano eloquenti.
Ha così inizio la nuova fase della vita di un giusto. E immediatamente si svela la fecondità di ciò che è stato il vescovo Carlo Maria. La processione di persone alle sue spoglie esposte in Duomo e l'eco internazionale del  ricordo commosso della sua testimonianza ne sono  i primi  segni. Unanime e popolare l'enorme risposta di uomini e donne, giovani e anziani, praticanti e diversamente credenti, religiosi e laici. Una risposta senza precedenti. Esprimeva sia la convinzione di aver perduto una irripetibile figura di fratello in umanità e di maestro nella fede, sia la percezione di poter dire che quella morte era un promettente evento di vita. Di una inarrestabile vita dello Spirito. Inconsistenti e risibili le voci discordanti. Da leggere comunque a conferma dell'autenticità evangelica della vita diMartini.
La sua sepoltura presso il crocifisso di S. Carlo nel Duomo di Milano è attorniata da una folta e permanente quantità di candele accese dai fedeli, quasi a dire che la Parola spezzata dal vescovo Carlo Maria continua a fare luce sul cammino degli uomini e delle donne di oggi. Sulla sua sepoltura, che un tempo Martini aveva sperato potesse avvenire nella terra santa a conclusione del suo soggiorno a Gerusalemme, sono state gettate alcune manciate della terra di Israele. Un bellissimo gesto simbolico pensato e donato da parte ebraica.
Grazie all'amore di Martini per il popolo dell'alleanza mai revocata e all'affetto verso di lui da parte di molti ebrei, nella cattedrale di Milano è dunque deposta terra proveniente da Gerusalemme. Ci si dovrebbe interrogare sul senso di questo piccolo, ma prezioso segno. Barth aveva detto: non ci sarà unità dei cristiani, finché non muteranno le nostre relazioni con il popolo ebraico. Martini ripeteva: non ci sarà pace nel mondo, finché non ci sarà pace a Gerusalemme. Ora il segno di quella sepoltura in Duomo suggerisce: non ci sarà nella chiesa conversione alla parola di Dio, finché non ci sarà un ritorno all'ebraicità della fede di Gesú e del suo vangelo. In questo potrebbe consistere il cuore di ciò che Martini ci lascia: la riscoperta della fede di Gesú. Una fede ricchissima di umanità e vissuta nel cammino del suo popolo. Una fede tutta permeata dallo Spirito di Dio Padre e dalla perenne novità del suo amore. Una fede libera e adulta. Fatta non di dottrine astratte, ma di un radicalmente nuovo stile di vita. Forse è proprio questa luce della fede di Gesú, figlio del suo popolo e Parola di Dio fatta carne, la lucerna che Carlo Maria ci ha acceso. Perché illumini il futuro cammino dei cristiani.




(fonte: “Il Gallo” del novembre 2012 e gennaio 2013)


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