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"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"
25 NOVEMBRE
2012 - XXXIV Domenica del Tempo Ordinario - Anno B -
Prima lettura: Dn 7,13-14 Salmo: 92 Seconda lettura: Ap 1,5-8
VANGELO secondo Giovanni 18,33-37 In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». |
XXXIV DOMENICA – B
Il paradosso della regalità di
Cristo 1. L’ultima domenica dell’anno liturgico è dedicata a “Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo”. È una solennità liturgica istituita da Pio XI nel 1925 con una prevalente finalità apologetico-strumentale che risente del clima socio-culturale dell’epoca, ovvero: riaffermare la regalità di Cristo e il primato della presenza regale dei cristiani e della “società cristiana” nel mondo. È una regalità perlopiù omologata a quella dei regni di questo mondo. Per un paradosso molto ricorrente nella fede cristiana, le letture bibliche scelte per questa solennità vengono a smentire il suo intento apologetico-strumentale originario e lo orientano verso una concezione della regalità più conforme allo stile di vita di Cristo Gesù.
2. Accostandoci alla pagina del vangelo di questa domenica (Gv 18,33-37) e leggendo anche i versetti che seguono, cioè da 18,38 fino a 19,22 vale a dire tutto il processo davanti a Pilato e il momento della crocifissione, notiamo che il “discorso” sulla regalità di Gesù è concentrato proprio dentro questa sezione, in particolare: 18,33.36.37.39; 19,2.3.12.14.15.19.21. Altrove nel vangelo di Giovanni si fa cenno alla regalità, quando, dopo la vicenda della moltiplicazione/condivisione dei pani (Gv 6,1-13), i presenti vogliono prendere Gesù per farlo re (Gv 6,14). Ma egli oppone nettamente il suo rifiuto: prende subito le distanze e si ritira sul monte, stando da solo alla presenza del Padre (Gv 6,15), stando davanti a Colui che l’ha chiamato a vivere una regalità altra. Nel processo davanti a Pilato, invece, Gesù accetta – ecco il paradosso – di essere chiamato re. La risposta che egli dà alla domanda di Pilato («Dunque, tu sei re?»): «Tu lo dici: io sono re» (Gv 18,37), ha una doppia valenza. Da una parte Gesù prende le distanze dalla concezione mondana di regalità che ovviamente ha Pilato e tutti quelli come lui: regalità come potere, dominio, occupazione, forza, violenza e morte; presa di distanza che Gesù aveva già affermato con chiarezza pochi istanti prima: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù» (Gv 18,36). Dall’altra parte Gesù accetta di essere chiamato re, perché per questo è nato e per questo è venuto nel mondo: la sua regalità, totalmente differente da quella mondana, testimonia la verità di Dio Padre (Gv 18,37), ovvero la sua volontà e la sua fedeltà nell’amare incondizionatamente tutta l’umanità, attraverso l’opera del Figlio: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito» (Gv 3,16), «Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa» (Gv 3,35).
3. Perché Gesù, proprio nel processo davanti a Pilato, dove i soldati romani si burlano di lui ponendogli sul capo una corona di spine e mettendogli addosso un mantello di porpora (Gv 19,2-3), accetta di essere chiamato re? Ecco il paradosso della fede: l’esercizio al meglio della regalità si esprime quando sei debole, quando non puoi fare tutto quello che vuoi, quando non hai nulla e nessuno a tua disposizione, quando non hai potere sugli altri; è allora che la regalità diviene vero servizio, autentica diaconia esercitata liberamente per amore e perché gli altri abbiano la vita, e non la morte. Qui sta l’autorevolezza della regalità di Cristo, differente da ogni altra forma di regalità apologetico-strumentale, tipica dei regni di questo mondo.
4. Questo paradosso della regalità, tutto interno alla fede biblica, lo ritroviamo nella prima lettura (Dn 7,13-14), dove la figura del “Figlio dell’Uomo” che sta davanti a Dio, intravista dal profeta Daniele nella sua “visione”, rappresenta il popolo di Dio oppresso, schiavo e martirizzato in esilio in Babilonia, quel popolo che il profeta chiamerà “i santi dell’Altissimo” (Dn 7,18.22; 8,24). Ebbene, proprio questo popolo, debole, sfiancato, martirizzato, riceverà da Dio l’autorevolezza di esercitare la regalità secondo la sua volontà. E forse anche per questo Gesù adotterà per sé l’espressione “Figlio dell’uomo”. Allo stesso modo la seconda lettura (Ap 1,5-8). Essa evidenzia che il popolo cristiano, che ha ricevuto da Cristo il dono di partecipare della sua regalità e del suo sacerdozio («ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre»), è anch’esso un popolo oppresso e perseguitato dal potere della “bestia”, cioè dall’impero romano occupante e violento. È in questa condizione esistenziale e storica che il popolo di Dio, il quale confessa Cristo Gesù come «il sovrano dei re della terra», è chiamato ad esercitare al meglio la sua vocazione regale e sacerdotale, al meglio, cioè come servizio per la vita del mondo, e non come ricerca del potere per dominare e sottomettere il mondo, brandendo il crocifisso come clava o come spada…
Con il salmista (salmo responsoriale: Sal 93), allora, rivolgiamoci a Dio e chiediamogli che ci spogli da ogni arroganza e presunzione, e ci rivesta di nuovo, come nel giorno del battesimo, di Cristo Re e Sacerdote, affinché sperimentiamo la bellezza e lo splendore della sua regalità come servizio e dono di sé.
Egidio Palumbo |