La tenerezza responsabile
di Felice Scalia
Parliamo di tenerezza responsabile mentre un autore contemporaneo,
Musil, dice che la responsabilità è soltanto una evanescenza nell’uomo
di oggi, che è uomo senza qualità, parliamo di tenerezza in un mondo
che, ad essere appena prudenti e saggi, ha bisogno di sicurezza,
richiede armi di difesa e non certo tenerezza.
C’è una frase del vangelo di Giovanni che mi ha affascinato, sedotto e
perfino rovinato: e la vita era la luce degli uomini. Mi ha fatto
capire dove dovevo cercare il senso di Dio, mi ha fatto vedere quante
cose nella chiesa, nel mondo e nella società non sono dirette alla vita
ma vanno in senso opposto.
Tutte le contraddizioni che ho sentito durante la mia esistenza si
racchiudono in questa frase che è stata la mia gioia ma anche il mio
tormento, la mia spinta a cercare oltre, a tentare di vedere se oltre
alle soluzioni ufficiali non potessero esserci soluzioni altre,
evangeliche.
Per parlare di tenerezza non possiamo non partire dalla passione per la
vita. La passione in sé non ha un oggetto, è una facoltà come il
vedere, il camminare, il sentire, il parlare. Se ami la vita non amerai
solo questa vita, amerai ogni vita, se non la ami ma la usi, ti
servirai di quelle vite che ti sono utili e allontanerai le altre.
Passione per la vita è la facoltà di amare tutto e tutti – non posso
dimenticare una bambina che diceva mia mamma ama tutto e aiuta tutti.
Se ami la vita ti accorgi di avere dentro di te la facoltà di donare
per amore a tutto e a tutti. Una facoltà che abbiamo senza averla
cercata né meritata, come tutte le cose dell’esistenza: ci meritiamo
gli occhi? il cuore? il cervello? l’aspirazione alla bellezza?
La passione per la vita non è soltanto un istinto di sopravvivenza, ma
qualcosa di molto più profondo che tocca le radici dell’anima, slancia
verso il domani, adora in amore, dona splendore, vede perle preziose
nel mondo. Senza passione per la vita non si vive, non si ha neppure il
coraggio di smuovere una foglia, di togliere da terra un pezzo di carta
che qualcuno ha gettato.
Senza passione per la vita non ci si affida neppure a un seno caldo di
madre, non si ha il coraggio di baciare un volto amato, di alzarci al
mattino, senza di essa si muore oppure si cade nelle forme di morte che
si curano con i farmaci.
La passione per la vita nel nostro mondo boccheggia. Siamo chiamati a
vivere da umani in un mondo disumano: siamo chiamati a vivere da
cristiani in un mondo non cristiano, siamo chiamati a vivere da amanti
del Cristo e del vangelo in una chiesa che sembra lontana dal Cristo e
dal Vangelo.
Oggi si assiste all’interesse per la vita-merce, a una paurosa penuria
di amore per la vita in sé: abbiamo fatto scadere la passione per la
vita, in interesse e calcolo. Siamo diventati selettivi e quindi
escludenti, distruttori della civiltà dell’amore, intrepidi costruttori
di nuove schiavitù, di una società signorile dove i veri uomini sono i
“bianchi cristiani anglosassoni”, padroni dell’universo e gli schiavi
sono tutti coloro che non entrano nel mercato globale né come
consumatori né come produttori.
Questa strada conduce inesorabilmente a una cultura che non ama la
vita, ma la si utilizza, la si sfrutta, si usa fino a quando serve e
poi viene scartato.
Se vogliamo vivere dobbiamo riprendere il cammino dove lo abbiamo
abbandonato. Dalla tenerezza per la vita, dalla passione, dalla vita
come criterio di ciò che è vero. Volendoci salvare Gesù di Nazaret ci
ha mostrato come si sta nella vita credendo negli esseri umani,
guardandoli come splendore di bellezza a volte nascosta ma mai
distrutta. Lui credeva nell’uomo, nella bontà, nell’amore, nella
compassione, nell’infinita possibilità degli esseri umani di risorgere.
Lui era grato al Padre per l’esistenza dell’altro, chiunque fosse,
vedeva nel volto di ogni persona una parola preziosa e unica detta dal
Padre per il mondo e a questa parola, a questo segreto del cuore, lui
si rivolgeva e donava speranza quando l’avevano persa. Che cosa resta
di questo? Si domanda Maurice Bellet in un piccolo libro intitolato
Incipit: Cosa resta quando non resta niente? Questo: di essere umani
verso gli umani, resta che fra noi dimori il fra noi che ci rende
umani, qualcosa che propriamente non è amore inaugurale ma ciò che da
esso in poi parte perché tutto appaia, tutto sia detto e si ritrovi,
esultante tenerezza del vivente. Misuriamo la nostra passione per
l’amore dalla gioia che proviamo nell’incontrare ogni persona: bella o
brutta, peccatore o osservante, è del tutto secondario. Cristo aveva
una esultante tenerezza per il vivente. È bello che tu ci sia, lo
diciamo alle persone care, anche se mi hai reso la vita difficile.
Oggi bisogna risalire la china, riconoscere l’uomo nell’uomo, senza
altra qualità che il suo nudo essere umano, sguardo di riconoscimento
nel banale e ordinario della vita, nei gesti condivisi del quotidiano,
nel condividere cose grandi e cose piccole messe insieme.
Dalla mancanza di questo fra noi umani, nascono le divisioni, le
scomuniche, i roghi, le nazioni canaglia, i muri che si innalzano tra
quartiere e quartiere nella nostra Italia, il diritto a possedere in
esclusiva armi atomiche o scudi stellari… Siamo così immersi in questo
mondo dove un’altra vita non ha valore, che giungere a esultare per
l’esistenza di un altro essere umano, arrivare a sprofondare per gli
occhi amorevoli di uno sconosciuto, ci sembra una follia.
Ma al di fuori di questa follia non c’è salvezza nel mondo.
Lo straniero da ospitare rivela la tenerezza responsabile. Dopo secoli
di assenza nel mondo del fra noi, dopo l’epoca del colonialismo e della
schiavizzazione del sud del pianeta, dopo secoli di caduta nell’inumano
e disumano, nel caos di violenza e terrore che va ben oltre il secolo
breve, i popoli sono in cammino e reclamano il loro diritto a esistere
e vivere. Conosciamo tutti la politica italiana verso questi popoli che
sono in cammino, costruita – come la politica di tutto l’occidente –
sullo slogan: respingimenti. Che fa la pariglia con il non
riconoscimento dell’uomo al tempo della conquista delle Americhe. Siamo
ancora a quel punto: abbiamo conquistato l’America perché non abbiamo
riconosciuto negli indios inermi e accoglienti l’umano, per noi non
erano uomini. La loro terra era terra di nessuno, abbiamo potuto
occuparla di fronte a un notaio.
Abbiamo piena coscienza che si tratta di problemi immani, ma sappiamo
anche che ogni essere pensante ha il dovere di occuparsi, non di
respingere. La Chiesa deve mettere da parte questioni di astratta
teologia e si deve occupare di chi muore nel Mediterraneo, si deve
occupare di chi è respinto, della sorte di chi è nelle prigioni
libiche, di ciò che succede nell’inferno afghano, in Siria, se vuole
essere fedele all’incarnazione del Verbo, se crede che la Parola si sia
fatta Carne davvero e non per gioco, e cioè se vuole farsi illuminare
dalla luce che è vita per gli uomini.
Quando parlo della Chiesa parlo di noi, non possiamo pensare tanto cosa
è una vita sulla terra di fronte all’eternità? Ci penserà il Padreterno
ad accogliere i naufraghi.
La chiesa deve rifiutarsi di stare in combutta con i governi, di girare
al largo dei malcapitati come fecero sacerdoti e leviti nella parabola
del Samaritano, deve fermarsi, guardare, chinarsi su ogni uomo lasciato
mezzo morto. Chinarsi, guardare, farsi carico, essere responsabile
della vita dell’altro anche se sconosciuto, affliggersi per una vita
umiliata, tutto questo è tenerezza, esultanza per la vita anche se
scomoda, gesti essenziali per la vita cristiana.
Rimontare la china, rendere possibile l’accoglienza dello straniero,
significa prima di tutto ospitarlo dentro di noi, sentirlo me, un
maghrebino, un rumeno, non sarà mai ospite della porta accanto se non è
ospite della nostra anima. Saremo cortesi, staremo ai baratti, al buon
rendere, ma mai veramente ospitali, essere ospiti dell’anima è la
condizione perché qualcuno possa essere davvero ospite. Se non
riconosceremo che siamo barbari noi, se non capiamo che il semplice
fatto di non allargare lo sguardo ad accogliere l’altro ci rende
disumani, non risolveremo mai il problema. La tenerezza responsabile
deve tendere molto più che a dare una casa o un lavoro, ma a fare di me
la casa dell’altro – quanto è pretenzioso questo Cristo quando mi
chiede di fare del mio cuore, della mia anima la casa dell’altro,
l’accoglienza, il non giudizio, l’aiuto disinteressato, l’amore, la
tenerezza per la vita.